Di verosimili, sebbene non accertate, discendenze turche. Costola del famigerato Acmet Pascià, crudelissimo rais al servizio di Maometto II che rase al suolo la città di Otranto e impalò 800 martiri cristiani, i teschi esposti nella cripta della cattedrale, fa sapere lui, Carmelo Bene, un vero, dannatissimo, maledetto mito vivente. Dalla testa ai piedi. Ti carbonizzava con i suoi occhi da turco. Che, peraltro, teneva sempre obliqui, laterali, puntati sull’invisibile. Tecnica di elusione collaudata in anni di frequentazione di specchi e di camerini, infallibile come azzeramento del prossimo tuo. Il non doverci avere a che fare con i messaggi subdoli e ricattatori che salgono alla superficie di ogni sguardo troppo umano, orfanelli smarriti quasi sempre in cerca di adozione e di un abito caldo.

Si esercitava sulla sua immagine allo specchio, Carmelo: mentre si verniciava di pallido, di nero o di bianco, a seconda che fosse Amleto, Otello o Pinocchio, tre umori, tre storie, lo stesso esilarante incubo, mollava un’occhiataccia malvagia al sé presunto che gli stava davanti, come a spaventarsi, con la scusa di spaventarlo. Era il suo modo di prendere ogni volta le distanze da se stesso, dall’equivoco che, allo specchio, pretendeva di raccontarlo. Da scansare più che mai gli occhi degli adoranti ai suoi piedi, non chiedendo loro altro che di farsi strapazzare, dopo essersi fatti ustionare. I più masochisti puntavano a farsi umiliare, se non ammazzare. Ho visto donne buttarsi impavide sotto la sua macchina per poter dettare un giorno a se stesse il glorioso epitaffio: uccisa da Carmelo Bene in persona. Se non da lui in persona, dalle ruote giganti della sua mitologica Citroën Pallas, che Le Corbusier aveva visto una notte in sogno. La stessa con cui abbiamo rischiato di schiantarci un paio di volte, io al volante con le palpebre cadenti, lui chissà dove. Sarebbe morto, nel caso, da quel vero mito che era, come James Dean, e io sarei morto come l’infame che ha ucciso un mito per uno stupido colpo di sonno.

Le donne, soprattutto, lo aspettavano ore in fila alla porta del camerino. Disposte a tutto per una sua attenzione. Si proponevano per lo più come attrici. Lui le riceveva solo se avevano palesi attitudini da infermiera. In alternativa, dovevano dimostrare di conoscere a menadito Il mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer, che Carmelo definiva «il mio educatore permanente». Pretese da una di loro di tornare solo dopo aver letto l’opera omnia di Heidegger. Un’altra se ne andò in lacrime dopo avergli gridato: «Lo so, sono io la donna della tua vita!», respinta perché aveva mostrato di non conoscere a sufficienza la dialettica servo-padrone di Hegel. Un’altra, essendo bellissima di suo, lo conquistò parlandogli del nichilismo paradossale di Nietzsche, uno che proclamava ai quattro venti che si dovesse amare la vita proprio perché era un inintelligibile orrore…

Carmelo era un autentico mito vivente e allo stesso tempo un inguaribile, morboso mitomane. Lo era da sempre, da quando alzava le sottane della Maria Vergine, trovando e toccando con mano, scioccato, solo tralicci di legno. I suoi miti erano soprattutto sportivi. Ne sfornava a bizzeffe. Incontinente, come in tutte le sue cose. Maestà del calcio, della boxe, del tennis, ma anche del basket, non disdegnando qua e là di delirare per il salto con l’asta e lo sci di fondo, se transitava nella sua mente febbrile il soggetto che si prestava alle sue potenti trasfigurazioni, il Bubka di turno, lo zar volante che saltava sei metri, «gigante in un mondo di storpi», o Bjorn Daehlie, il norvegese furioso dello sci di fondo che sveniva all’arrivo e vinceva lo stesso per una manciata di secondi. Stenmark era il Batman delle nevi. Edberg era un gigante alto due metri. Carmelo aveva un debole per i superuomini del decathlon, Daley Thompson il suo eroe perfetto, storie perfette per il suo pantheon. Detestava il pattinaggio artistico e non fece in tempo a detestare il nuoto sincronizzato.

Mi aspettava, il pomeriggio o la sera, con la sua tuta azzurro turchino e gli zoccoli neri, nella casa di via Aventina a Roma, il suo bunker inaccessibile, oscurato anche di giorno, impregnato dell’odore aspro e allo stesso tempo dolce delle sue Gitanes senza filtro. Il suo odore. Ne sono passate di donne, di pazzi, di questuanti e di adoranti in quella grotta. Mi aspettava con i suoi occhi da saraceno e le sue enormi scodelle di caffè nero dove bagnava tozzi di pane duro. Non vedeva l’ora di spartire con qualcuno i suoi stupori, la sua felicità bambina. Quello ero io. Un altro strafatto mitomane. Ansioso di mimarmi le gesta dei suoi eroi, i miti sportivi che la notte prima erano sfilati nel suo Mitsubishi 42 pollici e poi nel suo Sony 50, ingigantiti e declamati nella sua testa di mitomane. Dentro la sua tuta turchina, il colore della fata, le movenze di un Pinocchio rimasto legno come le Madonne della sua infanzia, mi replicava l’ultima rovesciata di Marco Van Basten, la volée di Stefan Edberg, le schivate di Ray Sugar Leonard, il montante destro di Thomas Hearns.

Milanista da sempre, Carmelo aveva un’adorazione per Marco Van Basten, che lui chiamava «il mio invulnerabile, vulnerabilissimo Achille».

Non potendo essere fino in fondo il mito di se stesso, Carmelo Bene puntava la sua torcia sulle grandezze altrui. L’ho visto con i miei occhi, il mitico Carmelo, la divinità dall’occhio assassino, che incuteva panico, terrore, soggezione profonda ai potenti della terra, tenero asinello in deliquio al cospetto del suo mito Paulo Roberto Falcão. A sua volta palesemente ignaro che l’unico vero mito in quella stanza non era lui, ma il bambino eccitato che gongolava ai suoi piedi. Felice come quando, anni prima, gli presentarono il suo idolo Gianni Rivera negli spogliatoi dell’Olimpico. Gli strinse la mano, ma era il suo piede destro che avrebbe voluto portarsi a casa nella sua teca. Ho visto con i miei occhi Carmelo genuflettersi davanti a una punizione irreale di Michel Platini. Ero lì, quel giorno, genuflesso accanto a lui. Una traiettoria impossibile. La nostra e la sua. Che solo un genio poteva tradurre in un fatto. La palla, ferma, s’impenna e scende a foglia che più morta non si può in fondo al sacco, al cospetto di tifosi e avversari attoniti. Non esultò più di tanto Michel Platini. Io mi ritrovai, non so come, genuflesso ai piedi del Mitsubishi. Mi volto. Alla mia destra, riconoscibile, il mio mito, questa volta dentro una tuta fucsia, genuflesso anche lui, Carmelo Bene. Genuflessi all’unisono, come due obbedienti marionette. Un’orgia transitiva di miti e di mitomani. Il mio mito che s’inginocchiava al suo mito che, a sua volta, il francese, se ne fregava di essere un mito…

A volte, gli eccessi della sua immaginazione lo spingevano oltre come quando, suggestionato dal nome, tentava di convincermi che tale Matuzalem, diciassettenne brasiliano sconosciuto ai più, era il miglior giocatore del mondo, o che Oliver Bierhoff, discreto attaccante tedesco, dopo il ritiro di Van Basten, un lutto per lui irreversibile, era senza ombra di dubbio il centravanti numero uno del pianeta. Milanista da sempre, Carmelo aveva un’adorazione per Marco Van Basten, che lui chiamava «il mio invulnerabile, vulnerabilissimo Achille». Ricordo bene la sua l’inconsolabilità il giorno che il suo amato, appena ventisettenne, comunicò l’addio al calcio. Si offrì pubblicamente, Carmelo, di donare la propria cartilagine per la caviglia offesa del proprio amato. Registrai la sua rabbia e il suo disprezzo per chi aveva accorciato la storia del suo campione e dunque quella dei propri stupori. «Squalifichiamoli per un anno, anzi no, radiamoli a vita, tutti quelli che attentano alla carriera di un campione». L’ho sentito quante volte maledire gli arbitri che non avevano saputo proteggere i petali che Marco aveva al posto delle caviglie. Tutti i cani arrabbiati che lo hanno sbranato per invidia, strapagati per umiliare il talento. «I manovali della sfera condannati al ludibrio perpetuo della mutanda».

L’ho sentito dire con le mie orecchie molto sporgenti: «Quale Gassman, quale Strehler o Kandinskij! Rinuncerei a qualunque artista di oggi e di ieri, in cambio della vita in campo di Van Basten. Se mi sento oggi molto più stanco, molto più vecchio, è al pensiero che uno come lui non ci sarà più. Me la sento addosso la mancanza, la sottrazione di stupore. Fino a questo punto si ama. L’amore non è per fare in culo tra gli uomini. È solo questa la mia stanchezza…Perché ho bisogno di miti, io».

E non c’è più Van Basten. Non c’è più Edberg nel tennis. Non c’è più Thomas Hearns nella boxe. E non c’è più nemmeno Ray Sugar Leonard, l’Invisibile. Non c’è più Roberto Duran, “mani di pietra”, massacrato da Ray Sugar per otto round prima di voltargli le spalle, “no mas”, come si volta le spalle a un incubo. «Non l’ho mai visto…», ripeteva alla fine Duran come il pugile suonato che era. E non c’è più Carmelo. «I miti vanno custoditi nei templi, non maltrattati», fece in tempo a dire prima di diventare cenere. Quel mito di Carmelo Bene.

Giancarlo Dotto

*Dal libro di Giancarlo Dotto, “Il dio che non c’è” (Gog, 2021), si è estratta per gentile concessione una porzione dal capitolo “Carmelo Bene: quando il mito è un mitomane”