Èquasi un ritratto su cuoio, una incisione su pelle quello che Luis Cardoza y Aragón, poeta, diplomatico, autore di libri come Luna Park, Maelstrom, La torre de Babel, El sonámbulo, poliedrici fin dal titolo, fa di Antonin Artaud.
“Lo ricordo incandescente, fatto a pezzi da se stesso, strangolato, fertile di guizzi e di crolli, errabondo, incapace di coerenza esteriore, anarchico a forza di sincerità… come un sismografo che si spacca in mille pezzi perché non può più registrare le convulsioni che solo lui avverte e che espone con ansia”.
La peculiarità di Artaud è quella di sovreccitare i sensi: da ciascuno, da chiunque lo fronteggia, distilla ansie remote, manie, l’estrema paglia del genio. A Città del Messico, Artaud compie un ciclo di conferenze incendiarie: una s’intitola L’uomo contro il destino; in un’altra, Il Teatro e gli dei, urla, “L’Europa è in uno stato di civilizzazione avanzata: voglio dire che è molto malata”, insegna che bisogna “dipingere come uno che conosca il segreto della folgore”, parla di Balthus e di Giuliano l’Apostata; è il tardo febbraio del 1936. La città, malcelata nella palude accademica, prona ai francesismi, non può capire Artaud, allucinato dal “mondo Indio”. Antonin, pronto a percorrere fino all’Everest i propri deliri, è arrivato in Messico con un intento mistico, cioè estatico: “Cercherò ciò che è stato mantenuto e ciò che riappare vecchia tradizione mitica del teatro, in cui il teatro è preso come una terapeutica, un mezzo di guarigione paragonabile a quello di certe danze Indios Messicani”, scrive il 14 dicembre del 1935, “Al Segretario generale dell’Alliance Française”, con l’intento di trovare fondi per l’avventura transoceanica – e cita Paracelso, Robert Fludd, Gerolamo Cardano. Tra i Tarahumara, voltando le spalle al ‘civile’, è certo di trovare i residui dell’antica civiltà atlantidea, le ultime vestigia della tradizione. “L’attuale civiltà europea è fallita”, scrive ancora su “El Nacional”, il 5 luglio del 1936, “L’Oriente è in piena decadenza. L’India dorme nel sogno di una liberazione che vale solo per dopo la morte. La Cina è in guerra. I Giapponesi di oggi sembrano essere i fascisti dell’Estremo Oriente. Gli Stati Uniti non hanno fatto altro che moltiplicare all’infinito la decadenza e i vizi dell’Europa. Resta il Messico… il crogiolo della Storia”. Fermenti di geopolitica artaudiana.
Il Messico è il cuore dell’azzardo di Artaud – il miracolo di veder realizzato il proprio enigma –, preparato da incontri capitali: con Alexandre de Salzmann, soprattutto, l’artista che lo inoltra a Gurdjieff, e René Daumal. Refrattario a ogni ‘sistema’, Artaud percorre un proprio messianismo. Dalla “serie di conferenze sulle vecchie culture magiche del Messico, in cui unirò la forza alla cultura cabbalistica degli Ebrei, che gli Ebrei moderni hanno tradito”, Artaud avrebbe voluto trarre un libro, come scrive a Jean Paulhan, Messaggi rivoluzionari. Utopia editoriale. Realizzata da Marcello Gallucci – che ho interpellato – per Jaca Book, in un libro dallo splendore esoterico, bello come un giaguaro all’assalto. Dopo il Messico, Artaud coglie la somiglianza tra i Tarahumara e i druidi d’Irlanda; percorre l’eremo dell’iniziato. La strada verso la reclusione e Rodez è spianata: la civiltà occidentale imprigiona il suo sciamano, lo piglia per pazzo.
Perché il Messico? Intendo: c’è un Messico per D.H. Lawrence, per Hart Crane, per Malcolm Lowry… Qual è il Messico di Antonin Artaud?
Il Messico. Tu ricordi Crane, Lawrence e Lowry. Io aggiungerei Majakovskij e Breton. E Ejzenštejn, il solo in cui è possibile, a mio avviso, trovare termini per un raffronto plausibile con Artaud. Del resto, un paragone tra i due è già stato avanzato. Barthélemy Amengual considerava la stretta prossimità tra il montaggio delle attrazioni e le strategie di aggressione psicofisiologica de Il teatro e il suo doppio, concludendo per un Artaud “discepolo inatteso” di Ejzenštejn; per Marco De Marinis il punto di arrivo di entrambi, tutto sommato, non è dissimile. La vicinanza che io avanzo, già dal 1994, ha una più marcata inerenza col Messico e col tema del geroglifico. Il Messico di Artaud, mi chiedi. È un Messico di aperta fantasia, almeno inizialmente cresciuto tra le letture disparate di un ragazzino trasognato e geniale. Progressivamente questa visione acquista caratteri diversi, fino a connotare un’originalità sincretica e personale che fonde suggestioni ancora infantili (le letture del Journal des voyages et des aventures de terre et de mer, l’ebdomadarioper i piccoli su cui esercita il suo iniziale gusto per l’esotico), con le narrazioni della Conquista, il Rabinal Achi, il Popol Vuh, gli scritti di Berardino da Sahagún e Brasseur de Bourbourg. E dunque, cos’è il Messico per Artaud? Un’idea, soprattutto un’idea. Ma per Artaud le idee sono concrete: possiedono l’ineluttabile cogenza del reale. Le osserva crescere, le coltiva, ne segue il corso, registra le occorrenze, le variazioni; rileva il brusio e coglie i minimi segnali della loro persistenza. Il Messico, insomma, è un reale concreto di cui l’idea è sinossi. Ripeto: ha tutta la concretezza di un’idea.
Il rito, il sacrificio, gli arcani dell’arcaico: che cosa trova Artaud in Messico e in quale modo il Messico entra nell’opera di Artaud, nella vita?
“L’attuale civiltà europea è fallita”, dice Artaud. Quello è il suo punto di partenza. In Messico, Artaud cerca un’origine diversa, un nuovo principio. E il Messico è con lui fino alla fine. Basta guardare i suoi disegni: piccoli cerchi intorno a immagini allucinate, e caratteri, derivati dalle scarse informazioni che abbiamo della pittura Tarahumara. L’idea che una scrittura del sacro sia possibile: ecco cosa permane in Artaud dopo il viaggio messicano. Artaud voleva imparare la lingua dei Tarahumara perché capì che in quella lingua c’era qualcosa per lui di vitale. Conoscere la lingua voleva dire entrare nel meccanismo liturgico dei Tarahumara. Da qui alle glossolalie di Artaud, il passo è brevissimo. I Tarahumara sono il Monte Carmelo di Artaud, il passaggio mistico. Un rito. La chiusura del viaggio tra i Tarahumara, a dorso di mulo, ha statura di emblema.
Il Messico ha due facce: in pubblico, durante le conferenze civiche, nessuno si accorge del ‘rivoluzionario’ Artaud; presso i Tarahumara, alieno alla città, Artaud scopre un diverso rapporto con il reale. Scopre il Messico, Artaud, quando volta le spalle all’uomo civile.
L’uomo che sbarca a Le Havre, di ritorno dal Messico, è una persona nuova. Il percorso tra i Tarahumara gli fa scoprire la verità della Tradizione – secondo la nozione di René Guenon – cioè che la verità è anonima. A Parigi Artaud comincia a firmare alcune opere come “Il Risvegliato”, nega il proprio nome, è in contatto con la realtà ulteriore che cercava da tempo. Il viaggio in Irlanda compiuto nel 1937 ha lo scopo di ritrovare le ultime, permanenti vestigia della tradizione in Europa. Per questo, le isole Aran, la visita nell’antica abbazia che era un tempio druidico…
“Fatto a pezzi da se stesso, strangolato”: come è ‘letto’ il viaggio sudamericano di Artaud, che ‘clima’ lo accoglie nell’altro mondo?
Si può dire che l’influenza di Artaud sui teatranti e gli artisti messicani sia pressoché nulla. Ma questo è secondario, appropriato al destino di Artaud. Egli, questa era la sua caratteristica, sbucava all’improvviso, dal nulla, per scombinare piani preordinati e pregiudizi. Aveva una personalità tormentata e tormentava gli altri con richieste assillanti. Metteva in discussione i principi di chi lo frequentava: alcuni scappavano pur di non incontrarlo. Dicevano fosse trasandato, più che altro, aveva la capacità di rompere qualsiasi quadro ordinario di un discorso. La sua originalità era dirompente, arrivava agli altri come una forma di genio: benché i suoi discorsi potessero apparire incomprensibili, erano, ad ogni modo, avvolgenti, incantatori.
Che libro è Messaggi rivoluzionari, cioè: come è stato costruito, quali erano le intenzioni ‘editoriali’ di Artaud in merito ai suoi testi ‘messicani’?
Messaggi rivoluzionari, lo dico subito, un testo indiziario. Forse è il libro desiderato da Artaud – ne scrive, tra l’altro, a Jean Paulhan il 21 maggio del 1936, “Questo libro s’intitolerà nel suo insieme Messaggi rivoluzionari” – che raccoglie tutti i testi redatti nel ’36, intorno al viaggio in Messico. Di certo, alcuni li avrebbe riscritti, altri li avrebbe eliminati: questa, comunque, è la raccolta più completa possibile, a testimonianza dell’avventura messicana, che fonde reinvenzione del sé, storia, predestinazione, profezia. Avere a che fare con i dattiloscritti di Artaud significa muoversi in una foresta di rimandi, cancellature, abrasioni.
Come figura che ‘prepara’ il viaggio in Messico di Artaud, lei cita Alexandre de Salzmann, pittore, derviscio, amico di Kandinsky, l’artista che introduce Gurdjieff in Francia…
Salzmann è l’uomo del destino per Artaud, eppure i dettagli del loro incontro sono un enigma. Suppongo si siano incontrati tra il 1925 e il 1926. Sono gli anni in cui si radicalizzano alcune frange del surrealismo, in opposizione a Breton. Jean Paulhan è l’artefice dei legami tra Artaud, René Daumal, Michel Leiris, André Rolland de Renéville… Da questi contatti strettissimi nasce l’idea di una “metafisica sperimentale” che per Artaud si esplicita nel teatro. In questo contesto, Salzmann è l’incontro decisivo per Artaud. Quando Salzmann, però, vuole introdurre l’amico nel circolo di Gurdjieff si scontra con la consueta ritrosia di Artaud, un artista che appena percepisce una strettoia, una sottomissione, reagisce, brutalmente. Artaud non accetta alcuna forma di autorità oltre la dittatura del suo genio. Balthus e Barrault, letteralmente, imitano le pose e i toni di Artaud: egli, il geniale, scostante Antonin, era contagioso.
Perché, infine, i Tarahumara?
Intorno ai Tarahumara e alla particolare passione di Artaud convergono diversi elementi. Letterari, anzi tutto. Alfonso Reyes, scrittore messicano di altissimo livello – che andrebbe riletto come ‘profeta’ di Borges – scrive un poema, Yerbas del Tarahumara, tradotto in francese da Valery Larbaud, fonte di ispirazione per Artaud. C’è poi il livello mistico, misterico. Artaud legge nell’Histoire philosphique du genre humain di Fabre d’Olivet, occultista, pensatore estremo, studioso di Pitagora, condannato da Napoleone come dal Papa, che “alcuni resti della Razza Rossa”, rari superstiti degli abitanti di Atlantide, “languono oscuramente sulle cime delle montagne più alte d’America”. Crede, insomma, che nei Tarahumara sopravvivano le vestigia del mito originario, della tradizione più arcaica e arcana. L’immaginario del Messico si era così forgiato: non restava che partire.