Dal Muro di Berlino alla pandemia, passando per tutti i grandi eventi degli ultimi decenni: una mostra fotografica ad Aosta ci svela, come dice il titolo, “The Families of Man”. Riaccendendo i ricordi condivisi. Ma anche evocando lo smarrimento del presente
di Valeria Parrella
The Families of Man (aperta fino al 10 ottobre 2021) è la mostra fotografica presente al Museo archeologico regionale di Aosta, pensata subito dopo il primo lockdown del marzo 2020 dai suoi curatori Elio Grazioli e Walter Guadagnini, e allestita e aperta al pubblico solo un mese fa, quando la regione è uscita, per ultima, dalle restrizioni.
Prende il suo senso intimo, dunque, dalla tregua in un anno orribile, e trova un antesignano famoso, al quale esplicitamente si rifà sia nel titolo che in un piccolo memoriale durante il percorso, nella più celebre The Family of Man , allestita nel 1955 al Mo-MA (quattro anni dopo passò anche in Italia, a Torino), quando la famiglia era una sola, quella umana, ed era uscita o ancora usciva dalla ricostruzione postbellica del secondo conflitto mondiale.
Quella finiva con la foto celeberrima della passeggiata nel giardino dei figli di Eugene Smith ( The Walk to Paradise Garden ), e raccontava il secolo in cui per la prima volta si vedevano in fotografia gli esiti della bomba atomica. Questa qui, che contiene già la moltiplicazione delle famiglie umane, che sa già che i cuori di un giallo un bianco e un nero sono uguali perché ce l’ha raccontato Oliviero Toscani ( White Black Yellow , 1986), inizia proprio dove l’altra finiva. Cioè con una passeggiata, si spera verso il futuro anche stavolta, di spalle anche stavolta, compiuta da Luigi Ghirri e signora, in età avanzata (Ghirri, Alpe di Siusi , 1979).
Per raccontare questa porzione qui di storia umana, così, i curatori hanno deciso di cominciare dal crollo del Muro di Berlino e di lì, di sala in sala, si attraversano tutte le vicende che ci hanno costruito, dico noi per dire proprio la generazione dei quaranta- cinquantenni, quelli che già votavano all’avvento di Berlusconi in Italia, rappresentato con il telecomando in mano e gli schermi — bombati — del suo impero alle spalle (Ferdinando Scianna, Silvio Berlusconi , 1986). Un impero che poi ha cambiato il gusto estetico, o il gusto e la sua incapacità di legarsi all’estetica, come raccontano le foto di scena, triviali, imbarazzanti, de La grande bellezza (Gianni Fiorito, La grande bellezza , 2012).
Sì, forse questa parte qui della mostra parla troppo agli italiani e meno al mondo, però una porzione di mondo pure c’è negli scaffali di Amazon con mille e mille scatoli tutti uguali (Michele Borzoni, Amazon, Castel San Giovanni , 2016) che tanto dialogano con la foto di un hangar destinato a un concorso, con mille e mille candidati tutti uguali (Michele Borzoni, Nuova Fiera di Roma , 2016). E c’è mondo nella bellezza, visto che i primi vent’anni di questo millennio hanno molto da dire anche sulla bellezza, ci sono i percorsi tematici del genere, dell’ecologia, del culto. C’è il mondo nella rivolta araba, nell’ascesa di Obama, nell’avvento dell’era digitale, e tutte queste tracce ci tornano facilmente alla mente, le disseppelliamo attraverso le sale, attraverso le fotografie con facilità, sappiamo dove siamo, mentre attraversiamo questa mostra, sappiamo chi siamo, siamo presenti.
È per questo che l’ultima sala lascia attoniti, no, devo usare la prima persona: è per questo, per questa sensazione di sicurezza che mi hanno regalato le prime sale che nell’ultima sono scoppiata a piangere. Perché l’ultima sala inizia con due fotografie recentissime in bianco e nero di Alex Maioli. Nella prima c’è un medico, all’inizio della pandemia, che con una mascherina e una pompa irrora dei lettini di una sostanza, un disinfettante, con un gesto che oggi ci sembra improprio, solo un anno e mezzo dopo, un gesto che ci si immagina buono per lavare il bestiame, eppure lì stavamo, un anno e mezzo fa ( scene# 7588, 2 marzo 2020). E la seconda è in un’ambulanza, c’è una ragazza che dorme e il guidatore con una mascherina che pensa, la foto è presa al di qua dal parabrezza ( scene#9395, 31 marzo 2020). Non ho pianto per commozione, è stato uno sbotto improvviso, un pianto forte, che mi ha sorpresa, non è sorto piano, è arrivato. Insomma è stato uno schiaffo e se da qualche parte c’era quella reazione vuol dire che c’era materiale per quella reazione. Ovvero, credo, che c’erano tutta la paura, lo smarrimento, l’angoscia di chi non sa dove sta.
Quell’ultima sala dice: cosa ci è accaduto, cosa ci sta accadendo ancora, dove siamo, dove sono? Io non lo so. Finisce, il percorso, con due fotografie di Letizia Battaglia: una donna sulla spiaggia lambita dalle onde con un neonato sulla pancia ( Olimpia) e una bambina tra le ortensie ( Ortensie, Trapani 1992): certo ci porteranno da qualche parte ed è l’unica possibile uscita per le famiglie dell’essere umano; certo dove la catarsi avviene l’opera è compiuta e si può uscire.