Sconfiggere l’isis è possibile (con gli scarponi sulla sabbia).

Le cattive notizie provenienti dall’Iraq e dalla Siria possono apparire monotone o troppo complesse, tali da indurre alla disattenzione per stanchezza. Dai singoli ai governi l’Occidente può suicidarsi anche così, accettando la sua impotenza. Ma prima bisognerebbe almeno riconoscere con onestà quale è la posta in gioco, e questo si direbbe che pochi siano disposti a farlo. Obama dichiara che «con l’Isis non stiamo perdendo» , ma non può dire che stiamo vincendo. Tra nove giorni si riuniranno a Parigi tutti i componenti della coalizione che proprio per battere l’Isis è stata creata, ma nessuno crede davvero a una nuova strategia ora che quella vecchia mostra la corda. E nel frattempo l’avanzata dei jihadisti tagliagole si avvicina a Damasco e a Bagdad, modifica gli equilibri mediorientali, scuote il sistema delle alleanze, crea nuove dinamiche che toccano anche noi italiani e che dovrebbero vietarci la distrazione se soltanto ci fosse chiaro che la caduta di Ramadi in Iraq, quella dei tesori di Palmira in Siria e le minacce jihadiste in Libia sono tessere di un unico mosaico aggressivo.
Mettere insieme i frammenti della sfida è difficile, ma è anche necessario per capire e, forse, per reagire. L’Isis nasce dai quattro anni di guerra civile siriana che oggi contrappone il massacratore Assad (sciita) ai ribelli jihadisti (sunniti). L’Isis ha avuto molto tempo per diventare una sofisticata macchina di guerra e di propaganda, capace di battere gli Hezbollah e gli iraniani che proteggono Assad e capace ormai di prospettare una battaglia per Damasco. Che non sarà l’unica, perché l’Isis sunnita ha investito anche l’Iraq che George W. Bush ha consegnato agli sciiti, ha moltiplicato le stragi e le persecuzioni religiose, ha dissolto nel Califfato il confine deciso da Sykes e Picot nel 1916, e non contenta di Mosul è andata a conquistare Ramadi, cento chilometri dalla capitale Bagdad. Ora sta per scattare la controffensiva. Condotta da chi? Dalle milizie «private» sciite, benedette e guidate dall’Iran. E sarà già una prima battaglia per Bagdad.
Cosa insegnano e cosa producono, queste dinamiche militari che abbiamo sommariamente riassunto? Dicono con forza che l’America e l’intero Occidente si trovano davanti a un bivio tra declino e reazione. Ebbe una grande perdita di credibilità regionale, la Casa Bianca di Obama che nell’estate del 2013 mandò le sue navi a punire la Siria e poi fece dietro-front senza aver sparato un colpo. E le cose non vanno molto meglio nell’Iraq di oggi, perché gli attacchi esclusivamente aerei della coalizione guidata dagli Usa non fermano l’Isis, l’addestramento dell’esercito iracheno è in ritardo sull’orologio dei fatti e il tetto di tremila «consulenti» statunitensi a terra è inadeguato. Forse Obama, da presidente che ha posto fine ai conflitti di Bush quale voleva essere, potrebbe invece diventare colui che ha fermato l’Isis, la più pericolosa minaccia jihadista dopo Osama e l’11 Settembre. La sua eredità non ne soffrirebbe, ma in Europa dimentichiamo troppo spesso che è la sua opinione pubblica a non volerlo.
E poi c’è la politica, quella vera. L’Occidente si nasconde quasi, di questi tempi, dietro un Iran sempre più determinato. In Iraq le forze di Teheran o guidate da Teheran non esitano a fare il lavoro che gli americani non fanno. Questo mentre tra Iran e Usa (più alleati) si dovrebbe concludere entro la fine di giugno un negoziato decennale per circoscrivere e sorvegliare i programmi nucleari di Teheran. Se ci sarà, l’intesa restituirà all’Iran risorse e libertà di movimento oggi vietate dalle sanzioni. Non è soltanto Israele a considerare il patto troppo fragile e troppo provvisorio. Perché come Gerusalemme la pensano le monarchie del Golfo e soprattutto l’Arabia Saudita, che prepara già i suoi primi passi verso la capacità nucleare.
Obama è in una morsa. Se incassa l’aiuto militare iraniano in Iraq e conclude l’accordo con Teheran sul nucleare, si mette contro i suoi alleati storici nell’area, da Israele all’Arabia Saudita. Se interviene in Iraq e nega concessioni negoziali a Teheran sul nucleare corre il rischio di non riconquistare né Israele né l’Arabia Saudita e manda all’aria una intesa che vorrebbe vedere abbinata al suo nome. Il groviglio è ormai troppo stretto per scioglierlo. E chi lo interpreta meglio di tutti? L’Isis, che provoca una strage nella parte sciita dell’Arabia Saudita puntando alla divisione, fomentando la guerra civile, preparando una ipotetica avanzata verso sud.
Piano troppo ambizioso? Per ora sì. Ma come non vedere che tutto è già in movimento, che in Medio Oriente prende forma il primo vero cambiamento di alleanze dopo la Guerra Fredda, con gli Usa quasi fermi, l’Isis che corre, l’Iran che tende due mani all’America, l’Arabia Saudita che si emancipa in odio all’Iran, Israele che assiste sempre più inquieto, l’Europa che è incapace di entrare davvero in partita?
La cornice, certo, è la lotta inter-islamica tra sunniti e sciiti. Ma le onde d’urto che ne provengono giungono ovunque, nella Nigeria di Boko Haram, nel Sahel qaedista, nel Sinai, nella Libia dove il caos è alimentato dai finanziamenti di Turchia, Emirati, Qatar, Arabia Saudita, Egitto. Per noi europei sarà già tanto se riusciremo a trovare un accordo sui migranti. Ma servirà a poco se non capiremo, gli americani e noi, che proprio là dove sta vincendo la piovra Isis serve una coalizione diversa da quella che giungerà a Parigi. Tanto diversa da mettere i famosi scarponi nella sabbia. E da recuperare almeno un po’ di una credibilità rovinata.

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