Pareva bellissima, degna erede del sole, l’imperatore Alessio I, che aveva risollevato Bisanzio dopo il disastro combinato dai Ducas. I Comneni si dicevano discendenti da Costantino il Grande, venivano, più modestamente, da Filippopoli – l’attuale Plovdiv, in Bulgaria –, fecero fortuna in Paflagonia. Alessio I fu un abile stratega: riuscì a placare le ire dei Normanni e a sfruttare a proprio favore la prima crociata, con gli eserciti occidentali, iene, intenti a rosicchiare le vacue vestigia dell’Impero Romano d’Oriente. “Con un impegno militare e diplomatico tenace e accorto… il grande Comneno aveva restaurato Bisanzio come potenza ‘mondiale’ e Costantinopoli appariva di nuovo agli occhi dei sudditi e dei ‘barbari ‘ come la ‘città dominante’” (Bisanzio storia e civiltà, 1994).
Anna era la pupilla dell’imperatore: intelligenza intrisa d’oro, pungente, aggressiva. Tentò, dopo la morte del padre, di appropriarsi del regno; il marito, Niceforo Briennio – che lei trattava come un cucciolo, “il mio cesare… bello, valoroso dotto… praticamente una donna” – si fece da parte, per vile cautela. Era il 1118, l’impero passò al fratello di Anna, Giovanni II Comneno, detto ‘Moro’ per i capelli, corvini, e le fattezze, truci. Giovanni seguì le orme del padre, la storiografia lo ricorda come uno dei rari grandi imperatori di Bisanzio. Chi sfoglia il repertorio dei basileus sa che a corte i familiari, per ambizione, si scannavano: la cronaca narra di morti per avvelenamento, di parenti deposti e defunti in esilio, di pretendenti al trono a cui furono cavati gli occhi e mozzate orecchie e naso. Le donne – mogli, amanti, figlie, sorelle – si dimostrarono, nell’alcova bizantina, di lunare ferocia. Anna visse fino al 1153: il fratello le risparmiò la vita, la levò da ogni dignità imperiale, inviandola in convento. Lì Anna si dedicò alla filosofia, scrisse, concentrandosi soprattutto sull’Alessiade, opera storica straordinaria, in cui magnifica le imprese del padre. Anna sapeva scrivere, aveva il piglio del romanziere, pare un prototipo di Proust:
“Il tempo, che scorre irrefrenabile in un moto perpetuo, trasporta e trascina con sé ogni manifestazione di vita, sprofondando nell’abisso del non più i fatti senza importanza così come gli eventi degni di memoria: porta alla luce le cose nascoste, dice la tragedia, nasconde quelle che sono alla luce. Ma la scienza storica è una diga robustissima contro il fiume del tempo…”.
Alessio I, come tutti gli imperatori, sapeva che il potere è legato alla magia, che la mano di un re sposta i popoli se segue l’orientamento degli astri, che la fortuna si livella col rito, che il credo vale più dell’ego e la fede è la forza dominante. Lo scisma con la chiesa di Roma si era consumato nel 1054 (per una visione complessiva: John Meyendorff, La teologia bizantina, 1984), a Bisanzio, insieme all’imperatore, governava il patriarca: potere terreno e divino, temporale e spirituale, in verità, tendevano sempre a coagularsi. All’epoca di Alessio I la chiesa era dominata da Nicola III Grammatico e poi da Giovanni IX Agapato. La guerra più insidiosa, comunque, Alessio I la combatté contro i Bogomili, gli “amici di Dio” – così stempiando l’etimologia – che raccoglievano accoliti in Bulgaria. Erano cristiani, gnostici, dualisti; credevano che il mondo fosse il terreno di lotta tra Satanael, il figlio ribelle di Dio, e Gesù, venuto a combattere il male. Avevano una visione aristocratica della fede, proclamavano l’ascetismo; secondo i Bogomili solo i ‘perfetti’ possono ascendere a Dio e perpetuare la lotta contro le forze maligne. Così li descrive Anna:
“La setta dei bogomili è abilissima a simulare la virtù. Tra di loro non vedrai mai una acconciatura alla moda: la loro malignità si cela sotto un mantello e un cappuccio. Hanno un’aria cupa, si coprono fino al naso, camminano a capo chino, per parlare sussurrano: nel loro intimo sono lupi scatenati”.
Gnostici, iconoclasti, dotati di un livido fascino, i Bogomili nascono dai pauliciani armeni ridotti in Tracia, troveranno nuovo furore in Occitania, tra i Catari. “Tutto ciò che sa di rapporto con la materia, che imprigiona lo spirito è da loro respinto: perciò si astengono da cibi animali… Tra loro si amano e si aiutano; con gli altri sono freddi, diffidenti, sprezzanti, tanto da essere scambiati per cospiratori pericolosi”. Credevano che i Vangeli fossero stati corrotti dai Padri, del Primo Testamento consideravano soltanto i Profeti e i Salmi, gli sono attribuiti diversi apocrifi, il più importante è l’Interrogatio Johannis. Il testo è costituito dalle domande che Giovanni pone a Gesù, “appoggiandomi al petto di Cristo nostro Signore durante la cena”, affinché gli sia squadernato il senso del mondo e del passaggio terreno.
“E ancora io, Giovanni, interrogai il Signore, dicendo: Signore, in che modo l’uomo ha avuto un’origine spirituale anche se dimora in un corpo carnale? E il Signore disse: Dopo la caduta gli spiriti del cielo sono entrati nel corpo femminile di argilla e presero carne dalla lussuria della carne e lì si confuse lo spirito… Lo spirito nasce dallo spirito, la carne dalla carne, così il regno di Satana in questo mondo non cessa”.
Nonostante l’azione di Alessio I – “Fu mio padre ad attirare e a trascinare alla luce del giorno questa gente così amante dell’ombra, rintanata come un serpente nel suo buco”, scrive Anna, esasperando, per metafore, la ‘bestialità’ degli eretici – i Bogomili continuarono, setta sotterranea, a vivere: nel 1147 il Patriarca Cosma II Attico fu deposto perché accusato di essere fraterno agli eretici. I Bogomili, secondo Anna Comnena, ricalcano “la turpitudine dei messaliani”: cristiani diffusi in Palestina, in Siria e in Anatolia, perseguitati, costoro furono dichiarati eretici al Concilio di Efeso del 431. Ritenevano che la Trinità potesse essere sperimentata attraverso i sensi, che soltanto la preghiera incessante riuscisse a condurre il cristiano allo stato perfetto, libero dal male. Non riconoscevano i precetti ecclesiastici, le loro comunità ospitavano donne, furono accusati di ogni empietà.
Al di là di ogni cinismo – lo sprovveduto sguardo odierno per cui tutto si regge sull’utile –, si governa solo con il favore degli angeli, ed è vertiginosa la civiltà che cerca di relegare Dio in codici, in cui si setacciano i maestri spirituali con foga delirante e la fuga nel deserto è pratica comune; dove i segni, ancora, splendono, irrevocabili, e il miracolo è sulla soglia del palazzo. Dove il mondo dello spirito – o degli spiriti – ha la prevalenza su quello degli uomini. Quando uno zio acquisito, dalle segrete della sua biblioteca, mi mostrò le Memorie Historiche Dell’introduttione dell’Heresie, stampate a Torino nel 1649, con gli “Editti… per estirparle” e “un breve compendio d’esse, e modo facile di confutarle” – si parla, per lo più, dei “Valdesi nelle Valli del Piemonte” – mi sembrò di poter conquistare le metropoli celesti. Ma questa, come si dice, è un’altra storia.