Crollo dell’occupazione sotto una media già bassa ; una crescita della produttività «molto fiacca»; i crediti deteriorati nella pancia delle banche, eredità della crisi finanziaria precedente. C’è poi il debito pubblico record al 160% del Pil da ridurre con gli investimenti del «Recovery» che dovrebbe migliorare la «crescita potenziale», un complicato indicatore della crescita senza inflazione che cambia nel tempo e produce polemiche esoteriche tra i governi e la Commissione Europea. E poi c’è il maxi-deficit del 9,5% nel 2020 creato dalla pioggia di ristori e decreti dalla pandemia. Andrà ridotto, ma senza bloccare gli investimenti pubblici e la spesa tornando all’austerità.
È IL RITRATTO dell’Italia fatto ieri dal vicepresidente della Commissione Europea Valdis Dombrovskis e dal commissario all’economia Paolo Gentiloni durante la presentazione del pacchetto di primavera del semestre europeo, una serie di raccomandazioni sulle politiche di bilancio ai paesi membri che hanno sforato alla grande il «patto di stabilità» nei 14 mesi del Covid. Insieme a dodici paesi, fino all’inizio del 2023, l’Italia potrà mantenere politiche fiscali espansive, ma non dovrebbe appesantire la spesa corrente (soldi per monopattini, cashback di Stato, bonus e incentivi a pioggia, ad esempio). E dovrà anche pensare a una riforma fiscale strutturale. Sui contenuti i gemelli diversi del bilancio europeo non si sono soffermati, ma è uno degli interventi che il governo Draghi ha annunciato di volere fare nel piano «di ripresa e resilienza».
RESTA L’INCOGNITA della «crescita», quella reale. Dombrovskis e Gentiloni ieri hanno camminato sul filo, sospesi tra molte incertezze e altrettante prudenze. È tutto da dimostrare se i 209 miliardi di euro del «Next Generation Eu» produrranno gli effetti desiderati, schiodando il Pil dallo stentato zero virgola che c’era prima della pandemia. Il problema è noto allo stesso Draghi che l’altro ieri, al termine della visita al distretto ceramico modenese di Fiorano Modenese, ha detto: «Due anni fa crescevamo molto poco e il grande timore che abbiamo è che, finita la pandemia e avviatasi una forte ripresa, questa non sia duratura e torniamo su quel sentiero di crescita molto modesto degli ultimi anni».
CHIUSA LA PARENTESI elettorale nei paesi che contano, la Germania vota a settembre e la Francia nella prossima primavera, si arriverà anche alla definizione delle nuove regole di bilancio con le quali la Commissione Ue sorveglia, e indirizza, le politiche economiche e sociali di ciascun paese. Dall’inizio della pandemia, nel marzo 2020, le regole del deficit sotto il 3% e della riduzione del debito verso il 60% del Pil sono state sospese azionando una «clausola di sorveglianza». Sul modo in cui tornare ad applicare il «patto di stabilità e crescita», anche ieri, tra Dombrovskis e Gentiloni non è emersa una visione comune. Probabilmente è solo un gioco delle parti. Per il primo «le regole (sospese) attuali sono già flessibili a sufficienza». Nel 2015 la Commissione Ue fornì un’interpretazione autentica del paradosso che ispira le sue politiche. La «flessibilità» va declinata nella «stabilità» economica e dipende dall’«uso intelligente» delle «regole». Più che l’intelligenza, qui si dovrebbe parlare di una negoziazione politica che cambia in base al governo in carica.
PER GENTILONI sembra invece che bisogna cambiare questa politica. L’ex premier italiano arriva da un paese che non potrà mai ridurre il suo debito dal 160% al 60% del Pil, dopo averlo aumentato in un anno di 160 miliardi di euro. E non sarà nemmeno facile cambiare le politiche fiscali accomodanti. «Non abbiamo soluzioni già in tasca» ha detto. Gentiloni però ha un’idea chiara: «Non parlo naturalmente di cambi ai trattati, ma di adattare le regole alla situazione in cui siamo. E non sarà una partita facile». È una filosofia della «resilienza», parola alla moda nelle società post-pandemiche. Significa adattare il sistema alle sue contraddizioni, non cambiare le cause che producono i suoi disastri. Questo vale anche per un’entità regolatrice del mercato e della concorrenza senza una politica economica e di bilancio, sociale o industriale comune che si chiama Unione Europea. In questo perimetro si muovono gli europeisti come Gentiloni, impegnati nella strutturazione di piani come quello contro la disoccupazione «Sure» o del debito comune europeo dopo la fine del «Recovery» nel 2026. È una politica resiliente dei piccoli passi nel quadro della governance neoliberale e delle compatibilità tra governi con maggioranze diverse.