di Donatella Di Cesare
L’articolo di Markus Gabriel uscito sul «Corriere» il 17 maggio non è forse la prova più lampante della crisi in cui versa la filosofia tedesca? A squarciagola Gabriel proclama che «la realtà è ritornata». E si arrabbia, fino all’insulto, perché io non capirei questa grande novità del suo pensiero che, con un marchio oculatamente scelto per il mercato, viene chiamata «nuovo realismo» o addirittura «filosofia globale». Non si tratterebbe di una corrente filosofica — sarebbe ben poco! — ma dell’orientamento scientifico del XXI secolo. Gabriel si fa dunque portavoce della «svolta realistica» che avrebbe investito ogni ambito e si sarebbe propagata ovunque nel pianeta. La «filosofia globale» è il nuovo tutto che incorpora e fagocita ogni lingua, ogni cultura, ogni corrente filosofica. E chi non è d’accordo? Ebbene, o è un «nuovo realista» senza saperlo, oppure è inattuale come me, cioè è fuori dalla epocale trasformazione realistica. Questa visione totalitaria non ammette altre possibilità.
C’è un tratto violento nel nuovo realismo, che per definizione non può tollerare dubbi o domande. Perciò nel dibattito prevalgono i toni polemici, mentre l’interlocutore diventa un avversario da deridere, un nemico da screditare. D’altronde Gabriel fa parte di coloro che ritengono di avere in tasca la verità, quella che aderisce alla «realtà oggettiva dei fatti». Come potrebbe non scagliarsi contro chi osa metterla in questione? Basta, insomma, con le tediose speculazioni dei filosofi, con le loro irritanti argomentazioni. E in effetti il «nuovo realismo» di filosofico non ha nulla. Di qui l’afflato nichilistico che lo pervade e il risentimento antifilosofico che lo affligge.
Prendiamolo dunque sul serio per quello che è: un’operazione di marketing. Pochi pensieri, un paio di grandi certezze. Che cosa c’è di meglio in un mondo sempre più complesso? Il nuovo realista promette a basso prezzo «verità» e «realtà», due prodotti che è difficile trovare sui banchi dei filosofi — quelli seri. Nella sua strategia commerciale si rivolge al grande pubblico, fa leva sul buon senso che trova conforto e rassicurazione nelle sue asserzioni dogmatiche. Alimenta opportunisticamente il bisogno di certezze, che va aumentando con le inquietudini, e da quel bisogno trae profitto.
Perché mai affaticarsi a pensare, se quel che conta è la realtà? E che senso avrebbe poi leggere i classici della filosofia? Non dico Heidegger o Husserl — dato che nella «filosofia globale» saranno eliminate ermeneutica, fenomenologia e tutte «le antiche distinzioni» —, ma in fondo anche Hegel e Kant, per non parlare della filosofia greca, di Aristotele o Platone? Tanto più che per Gabriel non esiste una «filosofia greca», e neppure una filosofia tedesca o italiana.
Le lingue sono per lui un di più irrilevante, come irrilevante è alla fin fine la storia. Che importa che il pensiero si sia articolato nelle diverse lingue, che sia venuto alla luce in epoche storiche differenti e si sia sviluppato nelle varie tradizioni culturali? Tutto questo non è che «ideologia». Così invita a sbarazzarsi di secoli di riflessioni, a cancellare insomma la storia della filosofia, superata e abolita nel suo pensiero unico, che insegue il «progresso» nel nome della «ragione universale». E in che lingua parlerebbe Gabriel, il nuovo realista? In tedesco? In globanglese? O in un linguaggio artificiale ancora da inventare? Con quali parole si rivolgerebbe al suo pubblico il sacerdote della «realtà oggettiva» che con sufficienza accenna alle «faccende religiose»? Dove finiscono le religioni nel suo pensiero unico, che altro non è se non una idolatria della realtà?
Semplice: per Gabriel la filosofia è scienza. È come l’ottica o l’astronomia. Lo rimandiamo allora a Socrate. Quando si allontana dalle indagini sulla natura, e dai filosofi che credono arrogantemente di cogliere le cose nella loro immediatezza, Socrate si affida alla parola, presta ascolto all’altro. La filosofia diventa dialogo. «Sono uno che ama imparare. La campagna e gli alberi non vogliono insegnarmi nulla; i miei concittadini invece sì». La filosofia scopre la sua vocazione etica e politica. Ma vivere con gli altri non è facile; e il filosofo resta al margine della città, per attraversarla quotidianamente con le sue infinite domande. Sa di non sapere. E così mette allo scoperto la presunzione dell’ignoranza. Si tiene aperto al dialogo — come deve fare la filosofia, che non è scienza. E ricomincia ogni volta a interrogare se stesso e gli altri. Anche al prezzo della condanna a morte. Non guardiamo con sufficienza al suo processo, né giudichiamo la filosofia greca con la superiorità critica dei moderni; perché la filosofia — come insegna Socrate — è un dialogo che richiede partecipazione.
Che ne sarà della filosofia in Germania, se nelle università prenderanno il sopravvento i «nuovi realisti»? Che ne sarà degli insegnamenti di storia della filosofia, di filosofia classica e contemporanea? Che fine faranno le materie umanistiche, per le quali — afferma Gabriel — vengono spesi fin troppi soldi?
La dura realtà a cui mi richiama, al termine del suo articolo, ha lo sgradevole sapore di un richiamo all’ordine. Politicamente Gabriel è un reazionario. La sua non è un’aderenza, bensì un’adesione alla realtà. Con la pretesa di averla ritrovata, diventa fondamentalista; alla sua «realtà» vorrebbe sottomettere anche gli altri. Accusa me di essere nostalgica, ma è lui a illudersi di poter tornare a un paesaggio della modernità che non c’è più.
Quella che spaccia per «filosofia globale» ricorda oscuramente la Torre di Babele, simbolo di una vuota unità, edificata per sopprimere le differenze — a cominciare da quelle delle lingue — rincorrendo la chimera del linguaggio universale e di un pensiero unico. Che Gabriel non ami le differenze lo dimostra quel «signora» con cui si rivolge a me — una donna che osa filosofare. E a proposito: dove sono oggi le filosofe in Germania?
«Più la filosofia si scontra con rivali sciocchi e impudenti, incontrandoli nel suo stesso seno — hanno scritto Deleuze e Guattari — più si sente stimolata ad assolvere il suo compito, a delineare concetti, non a produrre merci». Le fantasticherie del nuovo realismo non impediranno alla comunità filosofica di proseguire un dialogo che salvaguardi le differenze linguistiche, storiche, culturali e i contributi di ogni tradizione in una unità sempre aperta. Perciò il futuro della globalizzazione dipende anche da quello della filosofia.