Ci sono anziani che dimessi dall’ospedale si fanno riportare a «casa»: una roulotte infestata dalle cavallette parcheggiata nel bel mezzo dei campi. Coppie di donne tossiche, madre e figlia, che usano il taxi per andare a comprare le sigarette per sfuggire al controllo minaccioso di un reduce dall’Iraq, figlio e marito. Membri delle gang che a volte pagano la corsa con le metanfetamine e vecchie coppie per le quali quei «passaggi» a spese dell’assistenza sociale sono l’unica occasione di mobilità. Sul sedile posteriore della Lincoln nera di Lou Bishoff – protagonista di Last taxi driver (Black coffee, pp. 268, euro 18, traduzione di Leonardo Taiuti) di Lee Durkee – sfila un’umanità ferita, piegata, talvolta perfino minacciosa.
Per le strade di un Mississippi informe, dove i terreni agricoli cedono il passo a spiazzi abbandonati di erbacce e cemento polveroso, trasformati in improbabili condomini da un pugno di vecchi camper, Lou, romanziere fallito e appassionato di Ufo, si sforza di comprendere e raccontare cosa sta accadendo senza cedere al cinismo ma consentendosi anche di fare della cupa ironia sulla propria come sulle altrui disgrazie. Finendo però, lungo le scanzonate pagine di un irresistibile diario delle occasioni perse, per interrogarsi su cosa possa far scattare in noi la consapevolezza di non essere, malgrado le apparenze, soli al mondo.
Frutto dell’esperienza che lo scrittore Lee Durkee, nato a Honolulu nel 1961, ma cresciuto nel Mississippi, dove è tornato dopo una parentesi in Vermont, ha fatto lavorando per un anno per due compagnie di Oxford, guidando più di settanta ore la settimana, Last Taxi Driver indaga senza moralismi il volto dimenticato dell’America di oggi.
«Last taxi driver» è il suo secondo romanzo ed esce a vent’anni dalla pubblicazione del primo, «Rides of the Midway», tutt’ora inedito in Italia. A cosa si deve il fatto che tra i due libri sia passato così tanto tempo?
Dal punto di vista delle vendite quel mio primo romanzo non andò per niente bene. Le recensioni positive non fanno vendere i libri, almeno negli Stati Uniti. Questa è una delle ragioni per cui non ho più pubblicato niente, ma è anche possibile che abbia scritto solo romanzi brutti per tutto questo tempo o che non fossi in grado di scrivere di luoghi diversi dal Mississippi. Ho ambientato due libri nel Vermont e due a Kathmandu che però non sono stati pubblicati: gli agenti letterari non si sono neppure presi la briga di rispondermi. Ma sospetto di essere rimasto «fuori dal giro» anche perché non faccio parte di quel mondo accademico legato ai corsi di scrittura creativa che gestiscono ormai la letteratura americana. Un tempo tali programmi si contavano sulle dita di una mano, ora sono centinaia e sfornano un numero incredibile di scrittori che non hanno alcuna esperienza al di fuori dei campus. Il risultato è che gli autori che provengono dalla working class si sono trovati progressivamente estromessi dal campo di gioco.
Noel, il protagonista di «Rides of the Midway» sviluppava un certo numero di dipendenze – alcol, droga, pornografia: un tema che ritorna anche tra i personaggi del nuovo romanzo. Perché tanto interesse per questi aspetti dell’esistenza?
C’è quel vecchio adagio che recita: «Scrivi quel che sai». In una certa misura questi tratti di ciò che scrivo riflettono qualcosa di me. Ma viviamo anche immersi nella cultura e nella società americana dove quasi tutti sono drogati, in forma illegale o perché soggetti a qualche prescrizione medica e dove la pornografia è diventata qualcosa di normale e accettabile. Mi considero un autore «sporco» e questo è legato anche al fatto che cerco di scrivere cose divertenti e quindi che contengono una qualche speranza. Il sesso e le droghe sono argomenti che si prestano all’umorismo nero che è il timone del mio percorso.
In «Last taxi driver», Lou descrive il proprio lavoro come una sorta di servizio sociale che dà una mano a anziani, malati, tossicodipendenti e emarginati. Il libro nasce dall’esperienza che lei stesso ha fatto come tassista: ha maturato una consapevolezza simile a quella del protagonista del libro?
La compagnia di taxi per cui lavoravo, che alla fine è stata messa in crisi dalla comparsa di Uber, aveva stipulato un contratto con l’ospedale di Oxford, Mississippi. Il nostro compito era riportare a casa i poveri dopo che erano stati dimessi. Molti di questi pazienti erano vicini alla morte e non si sarebbero mai fidati di salire a bordo di un’altra macchina, con qualcuno che non conoscevano come noi: erano delle corse sul letto di morte. Quello era un lavoro che invitava a riflettere su come funziona il nostro Paese. I taxi che coprivano il turno di giorno, per il turno di notte c’erano altre priorità «sociali», fungevano spesso da ambulanza per le persone più povere. In fondo eravamo una parte integrante del sistema (non) sanitario americano. Spesso questi malati abitavano fuori città o in una località dei dintorni, quindi si trattava di corse che offrivano molto tempo per conversare, per ascoltare le storie che queste persone avevano da raccontare.
Per Lou queste figure equivalgono ad altrettanti fantasmi che siedono ogni giorno sul sedile posteriore del suo taxi ma che finisce per portare con sé anche quando stacca dal lavoro. Per lei, oltre che dei personaggi, cosa rappresentano?
Sono dei testimoni del dolore, dei fantasmi della contrizione. Lou non li incontra solo sul suo taxi, in realtà tormentano costantemente la sua coscienza. Quando sei abituato a stare tutto il tempo accanto a persone disperate puoi anche rischiare di diventare insensibile o dimenticare di essere gentile come avresti dovuto. I fantasmi di Lou prendono corpo in quei sussulti che ci colgono quando ricordiamo le persone che abbiamo perso.
Fuori dal finestrino del taxi sfilano le immagini di un Paese che, come lei scrive, «assomiglia al terzo mondo». Il Mississippi del libro esprime poca magia e molto dolore, più che l’ombra del blues e di Robert Johnson, ci si imbatte in persone disperate che sopravvivono a stento. È mancato a lungo dai luoghi in cui è nato, nulla è cambiato nel frattempo?
Ho lasciato il Mississippi per più di trent’anni, e me ne sono andato mostrando il dito medio allo specchietto retrovisore. Ho vissuto nel Vermont, a New York, Tokyo e Kathmandu, immaginando che durante tutto quel tempo la zona stesse evolvendo verso qualcosa di diverso. Quando sono tornato qui, più di dieci anni fa, ho scoperto che lo Stato non era cambiato per niente. Le persone continuano a definire il Mississippi come «autentico» e i fotografi lo adorano per questa sua caratteristica che traducono in immagini. Solo che «autentico» significa fondamentalmente povero, sporco, senza cura. E luoghi del genere fanno davvero molta fatica a cambiare. Per quanto mi riguarda vorrei solo che il Mississippi fosse molto, ma proprio molto meno autentico.Gran parte dei personaggi e delle storie che si incontrano nel romanzo sembrano raccontare dell’abbandono, della solitudine, di persone non solo lasciate indietro, ma quasi dimenticate. «Last taxi driver» risulta anche molto divertente, ma si tratta sempre di un riso amaro, di un’ironia su cui domina un senso di sconfitta e di perdita.
Senza l’umorismo il libro risulterebbe così deprimente da sfidare i lettori a finirlo. È intimamente scuro e anche l’umorismo con cui affronto le varie vicende è spesso cupo. Del resto tratta della povertà estrema in America. Qui un tempo gli scrittori erano vicini ai poveri, agli ultimi, ma ora, a causa dell’imprinting accademico sulla letteratura di cui parlavo prima, questi ultimi trascorrono tutta la loro vita nelle periferie residenziali o chiusi nei campus. Non solo, trovare spazio nei circuiti ufficiali significa spesso darsi dei limiti o auto-censurarsi, non trattare argomenti scabrosi come, ad esempio, il razzismo all’interno degli atenei e tanto meno adottare un canone all’insegna dell’humour nero per raccontare fino in fondo quello che non va.
Il diffuso razzismo verso gli afroamericani emerge dai discorsi dei clienti di Lou come dei suoi colleghi tassisti. Ma nel libro c’è anche spazio per il suo ricordo di quando, da unico ragazzo bianco e mingherlino della classe, veniva brutalizzato da alcuni ragazzi neri. È uno dei momenti più duri della storia e forse anche uno di quelli più difficili da scrivere…
Quella parte è stata la più difficile da scrivere per molte ragioni, incluso il fatto che risulta dissonante rispetto al dibattito che attraversa il Paese. La casa editrice era molto preoccupata per quel capitolo perché mostra un ragazzo bianco violentato e maltrattato da ragazzi neri. Ma gli eventi descritti sono accaduti realmente. Ero il ragazzo bianco più magro dell’intero sistema scolastico pubblico del Mississippi. Tra i 13 e i 18 anni ho vissuto la scuola come l’appartenente ad una minoranza, specie quando andavo in autobus nella parte nera della città. È stata l’esperienza più dura della mia vita, ma anche la più preziosa. L’integrazione in Mississippi sembrava essere stata progettata per fallire, ma alla fine di quel periodo ho comunque capito che l’unione di bianchi e neri nelle scuole rappresentava l’unica speranza per eliminare il razzismo dallo Stato. Ancora oggi penso che sarei inorridito ad incontrare la persona che potevo diventare se invece che quella scuola pubblica avessi frequentato una di quelle private del mio quartiere.