di Alberto Arbasino
«Conegliano», a un’ora di treno da Venezia, non soltanto è la patria di Giovan Battista Cima, autore di una grandiosa pala qui in Duomo, di Sacre Conversazioni in paesaggi luminosi, di San Gerolami vegliardi e San Sebastiani giovinetti. «Conegliano» è anche il vecchio nome di famiglia di Lorenzo Da Ponte, nato però a Ceneda, già devastata da Attila ma poi divenuta Vittorio Veneto.
Qui, su una via o contrada principale, sono tutti in fila i palazzetti o palazzotti nobiliari. E in uno di questi, sede espositiva, Palazzo Sarcinelli, vi fu l’anno scorso Un Cinquecento inquieto , con apertura (ripetuta adesso) dei grandiosi affreschi nella Scuola dei Battuti. Cultura di ispirazione pordenoniana, ma dovendo parecchio alle xilografie di Albrecht Dürer, e forse anche di Martin Schongauer. Ecco dunque la Fuga in Egitto , l’arresto di Cristo, le Pie Donne, la Veronica, Noli me tangere, la Cena in Emmaus, l’Ascensione, il Giudizio Finale…
A Ceneda, poi, una Annunciazione di Maria Vergine , di Andrea Previtali (1507 circa) non per niente nella chiesa di Santa Maria Annunziata. Mentre ancora a Ceneda, nella Cattedrale di Santa Maria Assunta, ecco un San Tiziano vescovo e patrono, in vesti liturgiche pontificali, indossando il piviale dello stolone, e uno scudo da cui pendono sei lambrecchini a rilievo, nonché due angeli inginocchiati che offrono il calice, mentre il razionale che chiude il piviale è in forma di protome di cherubino…Finisce con la Santa Inquisizione. E San Pio V. Rogo di Riccardo Perucolo, a Conegliano. E Vincenzo Bertoldi, morto in carcere nel castello di Ceneda. Ma assolto in articulo mortis .
(Si era alla mostra Un Cinquecento inquieto , sempre qui a Conegliano. Con gli affreschi del Pordenone. E i Patriarchi, in Duomo: Noè, Abramo, Giacobbe, Mosè. E i Santi: Marco, Leonardo, Caterina d’Alessandria. E le facciate affrescate, i Tritoni, i Bacchi ebbri, le Madonne, i Bambini…).
Stavolta, a Palazzo Sarcinelli, ecco i Carpaccio. Il grande, grandissimo Vittore, tanti anni dopo l’illustre rassegna veneziana. E il meno dotato figliuolo, Benedetto. Da Venezia all’Istria .
Pale e polittici di Pozzale, Pirano, Capodistria, S. Fosca… Continui prodigi, portenti, funerali, miracoli… Padre Eterno benedicente fra tanti cherubini e angiolotti… Un Leone di San Marco alato e «stante» o «andante», cioè posizionato con le zampe posteriori sulla laguna, e quelle anteriori sulla terraferma, simboleggiando i domini di Venezia in terra e in mare, con gli edifici del potere minutamente descritti, e tante navi mercantili… Gruppi di tipo fotografico, dove qualcuno si rilassa perché tanto non è in primo piano… San Giorgio che rivestito in armi ammazza con la lancia un drago tremendo; e poi subisce supplizi sproporzionati e inadeguati, forse per avere ammazzato quel drago… Diecimila martiri, peggio di tutto, però angeli che suonano sui gradini, beati… Dispute di Santo Stefano con i sapienti ebrei, invece di andare a dormire… Qualche confusione fra Stragi di Innocenti e Presentazioni al Tempio, sperando che non siano alla stessa ora… Apparizione del crocifisso d’Ararat in una vastissima chiesa, a Castello… Mentre si preparano le sepolture, fra un Leone e un’Adorazione…
Ma però basta — per favore — con questi cataloghi senza una foto sotto il titolo. E le foto, sparpagliate nella saggistica. Si deve fare troppa fatica, col catalogo in mano e i rinvii ogni volta alle pagine.
A Firenze, in Palazzo Strozzi, Potere e Pathos , si rimane anzitutto impressionati per la quantità di questi bronzi trasferiti via mare. Tutte queste navi trasportavano soprattutto bronzi ellenistici? Va bene, le spese saranno state ridotte. E una via di terra ovviamente non c’era. Ma così i bronzi ripescati a Riace valgono più o meno di quelli scavati lì, ai musei archeologici di Delfi o Salonicco?
Va bene. Al British Museum, al Louvre, al Bardo, a Malibu, al Museo Nazionale Romano, o al Metropolitan, o a Mazara del Vallo, il Pathos diventa una forma di espressività, oltre che di Potere. E anche qui a Firenze, oltre che ai Musei Vaticani, a Vienna, a Copenaghen, a Zagabria, a Castelgandolfo, nonché ovviamente a Napoli e a Pompei…
Quante riproduzioni autentiche o autenticate ci toccheranno, prossimamente, di qualche apoxyomenos , cioè di atleti con strigile, o magari di spinari (giovani ignudi che si tolgono una spina dal piede, scalzo non per umiltà ma per risparmio), ma sempre tenendo presenti la tecnica, la metallurgia, la fattura…
Ammesso e non concesso, ora confeeessso!
Pullulano i dizionari dei vezzi linguistici giovanili. Basta.
Sarebbe forse il momento di elencare i vocaboli e le espressioni che non si possono più usare o sentire?
Fuoco alle polveri, alzata di scudi, piede di guerra, a lancia e spada, punta dell’iceberg, luce del sole, a lume spento… Correre la cavallina, pugno di ferro, amletismi di minoranze…
Inoltre, parata, crociata, guado, pugna, forziere, scalata, fiammata, puntata, fiammata, boccata, leccata, schiaffo…
I tenori sono generalmente piccoli. Rispetto ai bassi, che sono spesso più alti. Ma quando devono esprimere «il mio furor» in abiti più che altro moderni — golfoni, mantelli — si sente, e si vede, la carenza di qualche maestoso manto. Siamo probabilmente contemporanei delle Risse in Galleria futuriste e cubiste di Carlo Carrà (ecc. ecc…). Viene spontaneo: «Chi ha la rabbia in core/ si metta a tavolino/ con un bicchier di vino/ la rabbia passerà». E dopo: «La rabbia è già passata/ con acqua e limonata./ Con zucchero e caffè/ La rabbia più non c’è».