L’enfant et les sortilèges

L’enfant et les sortilèges (Il bambino e gli incantesimi)

 

Fantasia lirica in due parti

Musica: Maurice Ravel (1875 – 1937)
Libretto: Colette

Ruoli:

  • Il bambino, mezzosoprano

Parte prima:

  • La mamma, contralto
  • La Poltrona, basso
  • La Bergère, soprano
  • Un orologio rotto dal bambino, baritono
  • La Teiera, tenore
  • La Tazza cinese, contralto
  • Il fuoco nel camino, soprano
  • Un Pastore, soprano
  • Una pastorella, soprano
  • La Principessa, soprano
  • Il piccolo vecchio, tenore
  • Il gatto, baritono
  • La gatta, mezzosoprano
  • Le cifre, i bambini del coro
  • Pastori e pastorelle, coro misto

Parte seconda:

  • La civetta, soprano
  • Un albero, basso
  • Gli alberi, coro misto
  • La Libellula, contralto
  • L’usignolo, soprano
  • Il pipistrello, soprano
  • Lo scoiattolo, mezzosoprano
  • La raganella, tenore
  • Gli animali coro misto

Organico: 3 flauti (3 anche ottavino), 3 oboi (3 anche corno inglese), 4 clarinetti (3 anche clarinetto piccolo, 4 anche clarinetto basso), 3 fagotti (3 anche controfagotto), 4 corni, 3 trombe, 3 tromboni, tuba, timpani, macchina del vento, crotali, lotus flute, wood-block, castagnette, gratta formaggio, tamburo, frusta, tam-tam- xilofono, celesta, pianoforte preparato, arpa, archi
Composizione: aprile 1925 – aprile 1926
Prima rappresentazione: Montecarlo, Théâtre du Casino, 21 Marzo 1925
Edizione: Durand, 1925


Trama

In una vecchia casa di campagna in Normandia, nel primo pomeriggio, un bambino di sette anni, brontola davanti ai suoi compiti di scuola. La madre entra nel locale e si arrabbia per la pigrizia del figlio. Il bimbo punito, preso da un accesso di collera getta la tazza e la teiera a terra, martirizza lo scoiattolo nella sua gabbia, tira la coda al gatto, attizza la brace con un attizzatoio, rovescia il bollitore, lacera il suo libro, strappa la carta da parati e demolisce il vecchio orologio. “Sono libero, libero, cattivo e libero!…” Esausto, si lascia cadere nella vecchia poltrona… ma questa arretra. Comincia allora il gioco fantastico. Uno dopo l’altro, gli oggetti e gli animali si animano, parlano e minacciano il bambino pietrificato. Nella casa e poi nel giardino, le creature espongono le loro lamentele e la volontà di vendetta. Mentre il bambino chiama sua mamma, tutte le creature si gettano su di lui per punirlo. Ma prima di svenire egli si appresta a curare il piccolo scoiattolo da lui in precedenza ferito. Prese da rimorso, le creature si scusano e lo riportano dalla sua mamma.

Scene

Parte prima:
La casa
Una stanza con un soffitto molto basso, che dà sul giardino, situata in una casa antica, o meglio passata di moda, nella campagna della Normandia; grandi poltrone con fodere, un grande orologio di legno con un quadrante fiorito. Una tappezzeria con piccoli disegni a carattere pastorale. Una gabbia rotonda per scoiattoli, appesa vicino alla finestra. Un grande caminetto con una cappa e un fuoco che sta morendo; un bollitore che fischia. Il gatto che fa le fusa. È pomeriggio.

Parte seconda:
Il giardino
Le pareti si aprono, il soffitto prende il volo e il bambino si ritrova trasportato, con il gatto e la gatta, nel giardino illuminato dal plenilunio e dal chiarore rosa del tramonto. Alberi, fiori, un piccolissimo stagno verde, un grosso tronco coperto di edera. Musica di insetti, di raganelle, di rospi, risate di civette, mormorii di brezza e canti di usignoli.

Guida all’ascolto 1 (nota 1)

Quando Maurice Ravel si avvicinò al teatro lirico per la prima volta con L’heure espagnole, rappresentata nel 1911, aveva più di trentacinque anni; ma ne dovettero passare ancora più di dieci prima che egli ritentasse la prova, sebbene nel frattempo avesse composto di nuovo per la scena, ma in forma di balletto. Nel 1916 la scrittrice Colette aveva proposto un divertissement intitolato Ballet pour ma fille a Jacques Rouché, direttore dell’Opéra, il quale ebbe subito l’idea di sottoporlo a Ravel; ma il musicista era allora sotto le armi, e non ricevette mai il plico. In seguito le trattative ripresero: Ravel, affascinato dall’incantevole soggetto, tempestò di osservazioni e di curiose richieste di modifiche la scrittrice che peraltro non riuscì mai ad avere con lui «aucun entretien particulier, aucun abandon amical» («sembrava preoccuparsi soltanto del duetto miagolato dei due gatti – ella raccontò – e mi chiese seriamente di poter sostituire ‘mouao’ con ‘mouain’»), ottenendo di accentuare l’elemento fantastico e di ‘rivista’ all’interno del quadro sentimentale; così, durante l’estate del 1920 poteva finalmente scrivere: «Lavoro all’opera in collaborazione con Colette. Il titolo definitivo non è ancora fissato [Ravel infatti obiettò sorridendo di non avere una figlia]. Questo lavoro in due parti si distinguerà per una mescolanza di stile che sarà giudicata severamente: la cosa non lascerà indifferente Colette, e io me ne fr…». Ma ci furono varie interruzioni, dovute alla composizione di altri brani, come le due Sonate per violino e violoncello e per violino e pianoforte, finché l’intervento del direttore del teatro di Montecarlo, Raoul Gunsbourg, non costrinse Ravel, con un contratto, a consegnare l’opera entro il 1924; l’Enfant poté così andare in scena nel marzo 1925, sotto la direzione di Victor De Sabata. «L’enfant et les sortilèges» – scrisse per quella occasione Ravel – «è un racconto fiabesco dal candore ingenuo, non privo di ironia, un sogno con sfumature di incubo e se talvolta dà l’impressione di essere un piccolo dramma, si tratta sempre della più graziosa commedia».

Se l’apparente realismo della commedia aveva scatenato in Ravel il gusto per il grottesco, per i movimenti di marionetta e per i meccanismi ad orologeria, anche la ‘verità’ del racconto di Colette si limita al primo episodio, in cui il fanciullo svogliato si scontra con i rimproveri della mamma; l’infantile fiaba quotidiana inclina subito, vistosamente, verso il clima della féerie sognante, assumendo i modi del racconto coreografico (la première ebbe infatti le coreografie di George Balanchine) e i toni dell’apologo moraleggiante e positivo, che presenta il bambino, in fondo, non così cattivo, e meritevole dunque di addormentarsi sereno, finalmente liberato dagli spaventosi incubi che l’hanno ossessionato nella notte. Punito dalla madre per la sua svogliataggine, l’enfant (mezzosoprano en travesti) per dispetto comincia a mettere a soqquadro la sua stanza, dove è rimasto solo: strappa i libri, fa volare in pezzi la teiera e la tazza, tira la coda al gatto, toglie il bilanciere all’orologio. Dopo questa sfuriata capricciosa, si adagia stanco sulla poltrona; e qui cominciano i sortilegi: la poltrona si agita e si mette a ballare una danza antica, seguito dagli altri mobili; l’orologio si lamenta dell’equilibrio perduto (“Ding, ding, ding”); la teiera – in lingua inglese e con movimenti da boxeur (è un wedgwood nero), e la tazza in un buffo cinese chiedono vendetta; perfino il fuoco del caminetto, sfrigolando con lunghi vocalizzi, nega il suo calore al bambino, che comincia ad aver paura, mentre i pastori e le pastorelle della tappezzeria fatta a brandelli cantano un lamentoso addio (“Adieu pastourelles”). Dalle pagine del libro strappato esce a consolarlo la Principessa, che lo rimprovera dolcemente (“Oui, c’est Elle”), intreccia con lui un tenero duetto, quasi fosse il Principe dal Cimiero color d’aurora, ma lo abbandona desolato (“Toi, le coeur de la rose”); ed ecco sopraggiungere l’aritmetica, un vecchietto con un pi greco in testa e un codazzo di numeri, che sconvolge il fanciullo poco studioso con terribili problemi. Intanto è sorta la luna, e due gatti intrecciano un buffo duetto amoroso; il bambino si trova in giardino, dove anche alberi e animali hanno sofferto i suoi dispetti e lo rimproverano: la rana, la libellula infilzata, il pipistrello si scontrano in una gazzarra frenetica, in cui uno scoiattolo viene ferito a una zampina. E il bimbo lo cura, fasciandolo con un suo nastro; gli animali, stupefatti del buon gesto (“Il a pansé la plaie”), riaccompagnano l’enfant dalla mamma (“Il est bon, l’enfant”).

Quello che sembra aver attirato Ravel verso un’opera quasi fatta di niente, eppure di così difficile realizzazione scenica, che lasciò perplessa al suo primo apparire anche la critica, fu senza dubbio lo spirito di leggerezza e libertà ballettistica che la pervade, l’atmosfera fantastica del racconto e delle apparizioni (che esimevano Ravel da un realismo sentimentale a lui estraneo), la presenza del tenero mondo dell’infanzia (al quale egli si era già ispirato, in primo luogo traducendo sulla tastiera le fiabe di Ma Mère l’Oye, e che egli forse aveva penetrato più in profondo dell’eros femminile, come nel raro esempio della protagonista dell’Heure espagnole). In più, la vicenda di sogno apriva le strade a ogni forma di sperimentazione stilistica, in direzione del pastiche e del divertimento, e al tempo stesso consentiva quel sorridente e aristocratico distacco che è la sigla costante dell’operare di Ravel. Se nella commedia spagnola egli aveva adottato la prosa del libretto per uno stile recitativo spoglio, di fronte al testo di Colette si comporta diversamente: «Più che mai la melodia, il bel canto, i vocalizzi, il virtuosismo vocale sono per me una scelta precisa (…) alla fantasia lirica era necessaria la melodia, nient’altro che la melodia» – scriveva – «e l’orchestra, senza rinunciare al virtuosismo strumentale, resta tuttavia in secondo piano»; la partitura impiega infatti i fiati ‘a tre’, ma con estrema leggerezza ed economia («uno dei più straordinari esempi di ‘semplicismo’ musicale», secondo Riccardo Malipiero, ma prezioso e spiritosissimo), e non presenta cenni di un sistema di Leitmotive se non per i due accordi che annunciano la mamma; per il resto dominano le forme chiuse, intervallate da episodi di recitativo. Ma il modello del melodramma tradizionale non può non essere che lontanissimo; l’autore sembra assumere lo sguardo microscopico che il bambino presta alle cose, e queste piccole nicchie, con oggetti e animali che prendono voce e movenze umane, consentono a Ravel le più libere soluzioni e gustose stramberie. Assistiamo a casi di musica scritta ‘à la maniere de’ per il minuetto della poltrona Luigi XV, accompagnata dal piano-lutheal che deforma il timbro del clavicembalo, o per il lamento delle pastorelle – una memoria tra il rococò e il barbare, con l’accompagnamento di legni e tamburelli – o a spiritosi ammiccamenti al jazz (fox-trot della teiera e della tazza, con strumentale da jazz band) e alla commedia musicale americana (valzer delle libellule), o a richiami beffardi dei climi lunari debussiani, nel duetto notturno dei gatti. E l’andirivieni fra stili ed epoche diverse non ha sosta: l’acuto canto vocalizzato del fuoco scherza con i modelli brillanti dell’opéra-comique, la marcetta dell’aritmetica gareggia con i ritmi dell’operetta, mentre il coro finale degli animali recupera (si pensi) una scrittura polifonica arcaizzante, alla maniera del Requiem di Fauré; e tutto realizzato con stili di canto variato, pieno di colore, tenero, buffo, con il gusto dell’arabesco e del décor, fino al limite del nonsense onomatopeico (i rumori misteriosi del giardino nel secondo quadro; i miagolii dei gatti, il gracidio delle rane, il canto in eco dei Numeri, tutti realizzati con sillabe d’assurda invenzione). Un gusto che investe anche l’orchestra, smagliante e sottile, con raffinati passaggi bitonali, ricchissima di ritmi moderni e d’invenzioni timbriche, ma anche sognante e soffusa (trombe in sordina, celesta, contrabbassi spinti verso l’acuto, la sequenza di quarte e quinte degli oboi per dipingere in apertura il torpore della stanza del bambino svogliato). Ma quando entra in scena la Principessa dagli occhi azzurri, e per il suo canto accompagnato dal flauto Ravel sembra ricorrere ai modi sentimentali di un Massenet, si ha la sensazione che non si tratti più di un giuoco sofisticato e un po’ snob, e che il divertimento intellettuale che pervade tutta la partitura ceda finalmente alla ‘presa diretta’, all’autenticità degli affetti; il duetto che l’enfant méchant intreccia con la Principessa è forse la prima e unica scena d’amore firmata da Ravel, un dolce quadretto che rivela le sue qualità di cuore timido ma «appassionato» (Jankélévitch) che «nessun travestimento, nessuna forma di pudore sono riusciti a mascherare in lui del tutto» (Roland Manuel). E a conclusione di un lungo vagabondare tra stili e figure di questo poema della metamorfosi, dando voce – con modi che sfiorano la confessione personale – alle paure e ai sogni del fanciullo che è dentro di noi, Ravel ci conduce «sulla soglia del pianto, con uno scoppio di umana cordialità e un’emozione debordante» (Mantelli), nel momento in cui il bambino è accompagnato dal coro degli animali, toccante e quasi religioso, nel grembo della Mamma.

Cesare Orselli

Guida all’ascolto 2 (nota 2)

Quando Ravel inizia a comporre la favola lirica L’Enfant et les sortilèges nell’estate del 1920 è un nome già famoso e ammirato nel mondo musicale francese ed ha al suo attivo lavori di indubbio fascino creativo, come Rapsodie espagnole, per orchestra, la commedia in un atto L’Heure espagnole, i tre poemi per pianoforte Gaspard de la Nuit, i cinque pezzi infantili per pianoforte a quattro mani Ma mère l’Oye, le Valses nobles et sentimentales per pianoforte, la sinfonia coreografica Daphnis et Chloé ed ha terminato la partitura della Valse, singolare e travolgente poema coreografico per orchestra. Veramente già quattro anni prima la scrittrice Colette aveva proposto al musicista di utilizzare un suo testo teatrale, Ballet pour ma fille, per un divertissement scenico in cui fossero presenti stili diversi, compresa la danza. Ma Ravel, in parte distratto da preoccupazioni personali (la tragedia della guerra, la morte della madre nel gennaio del 1917, un forte esaurimento nervoso) e in parte impegnato in esecuzioni, anche all’estero, di sue composizioni, si mostra restìo nei confronti del progetto di Colette, che soltanto tra il 1923 e il 1924 riprende in mano nella stesura conosciuta come L’Enfant et les sortilèges, presentata per la prima volta al’Opera di Montecarlo il 21 marzo 1925 sotto la direzione d’orchestra di Victor de Sabata, allora direttore stabile di questo teatro e scelta dallo stesso compositore che ne aveva intuito il finissimo gusto timbrico e coloristico. Il successo fu abbastanza significativo, anche se non mancarono critiche e riserve di quei musicisti più legati alla tradizione e al concetto della cosiddetta musica pura. Il 1° febbraio 1926 L’Enfarit et les sortilèges approdò all’Opéra-Comique di Parigi sotto la direzione di Albert Wolff e questa volta le accoglienze furono piuttosto deludenti, in quanto il pubblico rimase frastornato dalle alchimie inventive, tra il narrativo e il fantasioso, della musica di Ravel. Soltanto successivamente, dopo la morte del compositore, e nelle esecuzioni avvenute a Londra, Bruxelles, Praga, Vienna e di nuovo a Parigi la situazione si modificò e L’Enfant et les sortilèges incontrò larghi consensi e apprezzamenti, aumentati con il passare degh anni.

Si può dire che già con Ma Mère l’Oye Ravel aveva dimostrato di saper rappresentare il mondo dei bambini, attorniati da gatti, cani, scoiattoli e altri animali domestici, e le atmosfere fiabesche, in cui giocano elementi di straordinaria poesia evocativa, intrisa di effetti di magico stupore. Di nuovo in questa fantasia lirica il musicista descrive un ambiente infantile, anche se questa volta il protagonista è un bambino di sei-sette anni, svogliato e cattivo, che non vuole fare i compiti e, rimproverato della mamma, si scatena contro tutto quello che lo circonda: strappa libri e quaderni, fa a pezzi la teiera, strappa la tappezzeria, sconvolge il fuoco nel caminetto, tira la coda al gatto e, dopo aver punzecchiato con il pennino lo scoiattolo, apre la gabbia e lo fa fuggire. Ma vale la pena di seguire in dettaglio lo svolgimento di questa favola deliziosa, un pò sentimentale e un pò impietosa, che Ravel tratta con raffinatezza e acutezza di immagini strumentali. In una casa di campagna in Normandia, circondata da un giardino, c’è un bambino pigramente seduto davanti ad un tavolo e per nulla disposto a fare i compiti. Arriva la mamma e scopre che il compito è ancora da fare. Cerca di persuadere il bambino a fare il proprio dovere, ma il bimbo per tutta risposta tira fuori la lingua; la mamma gli lascia per merenda pane secco e tè senza zucchero fino all’ora di cena. La mamma se ne va e il bambino compie una serie di gesti rabbiosi: rompe la teiera con la tazza, ferisce con la penna lo scoiattolo, se la prende con il gatto, brucia le carte nel fuoco, strappa la tappezzeria, rompe l’orologio a pendolo e distrugge libri e quaderni.

Il bambino stanco si lascia cadere su una poltrona, ma qui cominciano i sortilegi: la poltrona si scosta e intreccia una danza con un’altra antica poltrona stile Luigi XV. Anche altri mobili si muovono, l’orologio senza il bilanciere suona disordinatamente, la teiera inglese e la tazza di porcellana intrecciano un duetto in un strana lingua minacciosa. Cala la sera e il bambino comincia ad avere paura. Dai vetri appare la luna e dalla tappezzeria esce un corteo di pastori e pastorelle che intonano una musica delicatamente naif e vagamente triste. Il bambino si spaventa e piange. Da uno dei fogli del libro distrutto esce la principessa delle fate, che vorrebbe aiutare il bambino, ma non può perché non ha vita da un libro strappato. Arriva invece l’Aritmetica sotto le spoglie di un vecchio barbuto che comincia a sciorinare una valanga di cifre da rompicapo. La luna è alta nel cielo e si ode una piacevole scena d’amore di gusto rossiniano tra il gatto e la gatta. Le pareti della stanza si sbriciolano e il bambino si trova nel giardino, popolato da insetti, rane, rospi, civette e usignoli. Lamenti provengono da alberi i cui tronchi sono stati martoriati dalla furia del bambino. Anche la libellula, il pipistrello e la rana si lamentano. Il bambino invoca il nome di mamma, ma tutti gli animali si scatenano contro di lui. Alla fine lo scoiattolo rimane ferito e il bambino lo cura, tra la meraviglia di tutti. A questo punto tutti gli animali, mossi a pietà, riportano in corteo a casa il bambino, che, tendendo le braccia, pronuncia ancora il nome della mamma.

Musicalmente la partitura è quanto di più raveliano si possa immaginare per l’abilità tecnica ed espressiva nell’evocare il clima di una favola per l’infanzia. Sono presenti tutti gli stili vocali: dal melos arcaico al recitativo declamato; dal canto comico per descrivere l’orologio e l’Aritmetica al parlato con il naso; dal song americano della tazza cinese, all’efficacissimo duetto a base di foxtrot fra la teiera e la tazza, ai virtuosismi coloristici del fuoco; dalle tenere inflessioni della principessa delle fate all’ironico e onomatopeico duetto dei gatti, una pagina di immediata e penetrante forza descrittiva. I valori melodici e armonici si intrecciano saldamente fra di loro e su ogni cosa spicca e domina la brillantissima e geniale orchestrazione che coglie e sottolinea plasticamente ogni gesto e ogni movimento di questa misuratissima e indovinatissima “féerie”, conclusa in modo serioso da un coro di ampio respiro («il est sage, bien sage»), prima che l'”enfant méchant” (il bambino cattivo) invochi la mamma.


(1) “Dizionario dell’Opera 2008”, a cura di Piero Gelli, edito da Baldini Castoldi Dalai editore, Firenze
(2) Testo tratto dal programma di sala del Concerto dell’Accademia di Santa Cecilia;
Roma, Auditorio di Via della Conciliazione, 10 febbraio 1990