di Aldo Cazzullo
Al confronto del parco candidati alle prossime Amministrative, il campo di Agramante era coeso come una falange macedone. A sostegno di De Luca in Campania, per dire, ci sono gli amici di De Mita e quelli di Cosentino, i movimentisti di sinistra e il consigliere regionale di Storace, già pellegrino sulla tomba del Duce; se si considera che il candidato governatore rischia di essere sospeso appena eletto, si ha una vaga idea del disordine che regna nelle periferie del Pd; per tacere dello scontro in Liguria, dove la sinistra interna segue la corsa di Pastorino contro la renziana Paita come l’avanguardia del vagheggiato nuovo partito. Va detto però che a destra le divisioni sono ancora più profonde: dalla Puglia, dove Fitto fa le sue prove di scissione, al Veneto, dove Tosi già candidato premier della Lega si ritrova guastatore centrista.
Il risultato è la polverizzazione dei partiti. Ed è la crisi del bipolarismo, finora definito da Berlusconi: prima si stava con o contro di lui; adesso si gioca tutti contro tutti, o tutti con il giocatore che ha la palla, come nelle partite da bambini. Il disgelo postberlusconiano ha creato una situazione liquida, in cui i naufraghi trasmigrano verso il vincitore annunciato, pronti a rimettersi in viaggio verso altri lidi alla prima crisi o sentenza del Tar. Un curioso paradosso, proprio ora che la nuova legge elettorale rafforza il ruolo dei partiti, conferendo il premio di maggioranza alla lista più votata senza consentire apparentamenti al ballottaggio, e affidando in larga parte la scelta dei deputati ancora alle segreterie romane.
Pure la leadership di Renzi, che si impone con le buone o con le cattive in Parlamento, in periferia arriva diluita, e non riesce a impedire pasticci come l’industriale berlusconiano che vince le primarie del Pd ad Agrigento o il ritorno a Enna di Miro Crisafulli, che di sé disse: «Se fossi di Forza Italia sarei già a Guantanamo».
Il punto è che nessuna norma e nessun leader può trasformare la politica italiana in ciò che dovrebbe essere, e non è: la rappresentanza degli interessi e dei territori, attraverso la selezione dei migliori, che si mettono al servizio della comunità. Oggi, tranne rare eccezioni, l’ultima cosa che viene in mente a un imprenditore di successo, a un giovane di talento, a un intellettuale dal curriculum internazionale è fare politica, occuparsi della cosa pubblica, e appunto candidarsi alle elezioni. I partiti non hanno mai avuto — per legge — tanto potere, e non sono mai stati — nella realtà — così poveri: di iscritti, di sezioni, di giornali; di ideologie (il che può anche non essere grave), e soprattutto di idee (il che è gravissimo). Renzi ogni tanto parla di una legge che attui la Carta costituzionale e garantisca il «metodo democratico» della partecipazione previsto dall’articolo 49. La sua minoranza interna obietta che non è certo Renzi il più indicato a guidare una simile riforma. Ma anziché battersi per il ritorno delle preferenze, permeabili alle clientele quando non alle mafie, il Pd nelle sue varie componenti e quel che rimane del centrodestra avrebbero l’interesse a disciplinare le primarie per legge, e a mettere un po’ d’ordine in una politica dove lontano dal centro del potere nessuno sembra rappresentare altri che non se stesso.