La violenza maschile che cresce in pandemia

«Durante i primi lockdown molti Stati hanno registrato una crescita record di abusi domestici, e nonostante i recenti confinamenti siano, nella maggior parte dei Paesi, meno rigidi, le linee telefoniche nazionali stanno registrando di nuovo un drammatico incremento delle chiamate d’aiuto». A dichiararlo con preoccupazione è Marija Pejcinovic Buric, segretaria generale del Consiglio d’Europa, che ha scelto di intervenire ieri alla vigilia della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza maschile sulle donne.

Quella della violenza maschile è questione che ogni anno arriva all’attenzione pubblica a ridosso della data del 25 novembre ma che oggi, a causa dei provvedimenti per la pandemia, ha richiesto maggiore sforzo nell’individuare situazioni già complesse o rese tali dalle condizioni di chiusura in casa. Ecco perché non si può discutere di questa giornata senza valutare quanto il tempo pandemico abbia procurato, nelle sue conseguenze, dei danni alle donne che hanno sì reagito mostrando una rara capacità di resistenza ma che nel caso di ambiti violenti spesso si sono trovate in una doppia trappola, quella dei propri aggressori e quella di una perdita di movimento.

ALLE VIOLENZE DOMESTICHE, aumentate negli scorsi mesi in tutta Europa, i segnali che arrivano dall’Italia – soprattutto nell’ambito dei femminicidi commessi nell’ultimo anno – sono dunque da analizzare con serietà; lo dice il VII Rapporto Eures sul Femminicidio in Italia reso noto ieri che parla di 91 donne morte in soli nove mesi rispetto alle 99 dell’anno scorso; il leggero calo tuttavia risponde alle vittime della criminalità comune, il femminicidio resta invece tragicamente stabile attestandosi in una percentuale media di uno ogni tre giorni.

Nell’89% dei casi si tratta di femminicidi in ambito famigliare, vuol dire che gli assassini sono mariti, compagni, parenti conviventi che hanno in comune una cosa: sono maschi e uccidono le donne in quanto donne; se il tempo del covid-19 ha accelerato il fenomeno di rischio della prossimità ai violenti, è pur vero che rimuovere si tratti di un fenomeno strutturale e sistemico sarebbe un errore fatale; sarebbe come a dire che dopo la pandemia le cose riprenderanno nella buona convivenza tra i sessi che precedeva questo presente.

Non potrà essere così, anche qui il tanto agognato «ritorno alla normalità» non è né auspicabile né plausibile: negli ultimi venti anni sono state sono 3.344 le donne uccise in Italia, tanto per avere contezza dell’aspetto così poco emergenziale di ciò che è la violenza di cui oggi si domanda l’eliminazione.

È tuttavia chiaro come, in ambito famigliare, vi sia stata l’aggravante di stare forzatamente dentro la stessa casa a causa delle misure anti-contagio; la maggior parte infatti delle vittime di femminicidio viveva sotto lo stesso tetto del proprio assassino. Per la stessa ragione vi è una flessione di femminicidi commessi da amanti e non conviventi. Altri due dati emergono dal Rapporto Eures: crescono vistosamente i femminicidi-suicidi e, sia pure in forma più residuale, anche le uccisioni delle madri da parte dei figli.

A proposito della collocazione geografica, si segnala un aumento delle uccisioni negli ultimi dieci mesi rispetto allo stesso periodo del 2019: +9,5% solo nel nord Italia con un allarme che riguarda Lombardia e Piemonte cui si riconosce il triste primato di coprire il 36% dei casi nazionali. La lettura non può che tenere presenti le maggiori misure di confinamento nelle case dovute alla condizione sanitaria. Una flessione che si registra invece al centro (con una diminuzione del 12,5%) e al sud (il 22,2% in meno rispetto l’anno scorso).

I CASI DI CRONACA non riportano solo femminicidi ma anche i cosiddetti «nuovi reati». Proprio a questo proposito è stato presentato ieri in streaming dal ministro Alfonso Bonafede il report relativo al «Codice Rosso», ovvero il pacchetto di misure per punire la «Diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti» (art. 612 ter del codice penale). I numeri restituiti dipingono uno scenario tanto fosco quanto retrivo che si configura con 3932 indagini aperte tra il 10 agosto 2019 e il 31 luglio 2020 che riguardano il revenge porn (circa 1000 inchieste), la costrizione al matrimonio, la violazione delle misure di protezione per le vittime e gli sfregi permanenti. Al momento sono 120 i dibattimenti in corso, 90 i processi già conclusi, 80 le condanne e 686 i casi di rinvio a giudizio.

ACCADE in un paese come l’Italia in cui si è discusso per giorni se una donna adulta e consenziente debba o no essere licenziata, oltre che variamente dileggiata, con l’unica colpa di essere stata oggetto appunto di revenge porn. Ciò per dire che i dati sono fondamentali per capire la situazione esistente ma bisogna proseguire un lavoro di sponda, deve essere culturale, di immaginario, relazionale. In una parola: politico. E femminista.

 

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