L’Architettura raccontata
di Lara Crinò
«Per questa storia sono diventata esploratrice.
Nell’archivio di Berlino non c’era molto di utile, e il diario del Bauhaus è un documento formale. Per scoprire chi era Ise Frank ho cercato altrove. Chiedendomi che cosa aveva spinto una figlia dell’alta borghesia ebraica a legarsi a Gropius, uno squattrinato architetto autodidatta, più anziano di lei, e a costruire insieme a lui un’idea pedagogica ed etica rivoluzionaria. Non mi sarei azzardata a scrivere il romanzo senza le testimonianze degli allievi americani di Gropius e della nipote di Ise». Così la tedesca Jana Revedin, architetto e urbanista, docente all’École spéciale d’architecture di Parigi, spiega come ha raccontato l’avventura della più celebre scuola d’arte, design e architettura del ’900, narrando al tempo stesso una storia d’amore e il percorso della Germania da Weimar al nazismo. Con un punto di vista inedito, quello de La signora Bauhaus (Neri Pozza), ossia Ise Frank, che conobbe Gropius nel 1923, gli fu accanto negli anni della scuola e poi, dopo il 1933 e la fuga dalla Germania di Hitler, fu centrale nel fare degli Stati Uniti la seconda patria dell’uomo che aveva sposato e del suo ideale di modernità.
Che cosa l’ha colpita di Ise Frank?
«Mentre leggevo con gli studenti La nuova casa: La donna creatrice di Bruno Taut, del 1924, scoprimmo che le invenzioni ergonomiche importate dall’America furono sperimentate a Dessau nella casa che Gropius costruì per sé e Ise. Fu lei, insieme a Taut, a disegnare gli interni della “donna emancipata moderna”. Pur non essendo architetto, ma giornalista e scrittrice, Ise è stata l’anima del movimento riformista di Gropius».
Il libro è anche il ritratto di quel movimento, di una generazione geniale stretta tra enormi tragedie.
Chi l’ha affascinata di più?
«Non posso fare classifiche: l’audace spirito di scoperta di Marcel Breuer, l’intelligenza effervescente di László Moholy-Nagy, la determinazione di Marianne Brandt, la postura aristocratica e lo humour della madre di Gropius, Manon».
Di questo gruppo solo Ise e Irene Hecht seppero intuire il futuro.
«Già alla fine del 1927 Ise si rese conto dei rischi che correvano i docenti e gli studenti del Bauhaus, disprezzati dall’emergente partito nazista.
Insieme all’amica fotografa Irene Hecht, escogitò un piano di fuga.
Mentre i grandi maestri della scuola ancora credevano nella stabilità democratica di Weimar, loro intuirono che il “metodo Bauhaus” doveva migrare altrove. Avevano agganci a Parigi, Istanbul e New York. Fu Ise, con Gropius e Herbert Bayer, a curare la mostra al MoMA di New York nel 1938. Senza di lei la memoria della scuola negli anni tumultuosi della guerra si sarebbe dispersa».
Anche grazie a Ise, invece, nel 2019 abbiamo celebrato un secolo dalla nascita del Bauhaus. Quanto c’era di idealistico nella sua lezione e quanto di valido ancora oggi?
«Di idealistico c’era solo il credere in una repubblica di Weimar durevole.
Un’avanguardia del “pensare e fare un nuovo Stato” diede l’intera esistenza per l’idea democratica.
Oggi, nel dibattito sul futuro, mi rifaccio a ciò che si sognava allora: le questioni erano simili a quelle attuali. Un’ondata di profughi dall’est, di tradizioni rurali, invase l’Europa centrale industrializzata; una brutale epidemia, la spagnola, condannò le vite scampate alle trincee; la crisi del mercato azionario minacciava l’economia. Fu in questo scenario che Walter e Ise Gropius, László Moholy-Nagy, Marcel Breuer e Siegfried Giedion immaginarono la città “ecologica”».
Che cos’era la “citta ecologica”?
«Nei quartieri ideati da Gropius, May, Taut, Tessenow o Häring si sperimentarono il riciclaggio dell’acqua piovana, l’energia solare e geotermica, le turbine eoliche e gli involucri termici intelligenti degli edifici. Si sognava una città che “ascoltava i bisogni dei suoi abitanti”, che li integrava nel processo di creazione delle case e dei luoghi di incontro, di lavoro, di svago. Ciò grazie all’innovazione didattica in architettura e urbanistica: l’insegnamento divenne una pratica attiva, sperimentale. Il concetto di homo faber, sviluppato da Hannah Arendt, ne fu la conseguenza logica.
Infine, si voleva “una città di brevi distanze”: i quartieri popolari non erano fuori città, ma negli interstizi urbani. Berlino, Colonia, Francoforte ne sono i testimoni. Ma anche nei villaggi più piccoli, per esempio a Dessau Törten, si faceva lo stesso».
Che cosa accadde con l’esilio e lo sterminio dell’avanguardia riformista in Europa negli anni ’40?
«Si lasciò spazio alla dottrina della “città a misura della macchina” di Le Corbusier: lo zoning, la tabula rasa, la macchina per abitare sono gli errori fatali dell’urbanismo del dopoguerra. Solo negli anni ’70 si ripensa la relazione tra uomo e territorio: Christopher Alexander a Berkeley, Jane Jacobs a New York, Giancarlo de Carlo e Aldo Rossi a Venezia formuleranno le basi teoriche di una “città a misura d’uomo” partecipativa ed inclusiva».