“È il secolo della solitudine”

Non sono solo il Covid, il lockdown, lo smart working. La tendenza a interrompere i rapporti sociali è precedente. E ha effetti politici, dice Noreena Hertz, l’economista più esperta in materia
LONDRA
Dal secolo breve a quello della solitudine. A volte estrema, come nei lockdown imposti dal Covid 19. E con conseguenze enormi. Mentali, ma anche sociali, fisiche e politiche: «Perché i nuovi populismi e i movimenti di estrema destra degli ultimi decenni sono tutti legati alla solitudine». Benvenuti dunque nel “Secolo della solitudine”, che è anche il titolo dell’ultimo libro dell’economista e saggista inglese Noreena Hertz, The Lonely Century: How Isolation Imperils Our Future, appena uscito in lingua inglese per Sceptre. Dopo i saggi su neoliberismo e “Generazione K”, ora la studiosa 53enne si concentra sulle ultime degenerazioni di una profonda e antica piaga esistenziale, perché «la mia anima è agonizzante, sono solo, sempre solo in questo mare», scriveva Coleridge nella Ballata del vecchio marinaio.

Ma secondo Hertz, la solitudine oggi assume forme e ripercussioni più severe ed estese. Perché si è sempre più soli non solo in casa o al lavoro, ma anche se si è abbandonati da governi e società, come già teorizzavano Jung e Asimov. Non a caso, il governo britannico ha recentemente annunciato la formazione di un “Ministero della solitudine”.
Noreena Herzt parla con Repubblica in una conference call della Associazione stampa straniera (Fpa) di Londra e sviscera questo secolo triste, solitario e speriamo non final: c’è ovviamente la fenomenologia del lockdown, i suoi danni collaterali e il precedente degli “isolati” della vecchia Sars, che ancora oggi soffrono di complicazioni fisiche e mentali; c’è “l’economia della solitudine”, ossia “le perversioni del capitalismo e dell’individualismo”; c’è una società sempre più “contactless”; il “buco nero” e ossessivo di smartphone e tecnologia in stile Black Mirror; infine, la perdita del senso di comunità e aggregazioni come i “vecchi” partiti, sindacati, ma anche quei quartieri che, a causa delle migrazioni e di culture non più dialoganti, limitano i rapporti interpersonali e gonfiano le tensioni.

«Già, c’è anche una globalizzazione della solitudine», per Hertz. Che si manifesta in una società sempre più riottosa, da “uomini e topi”, come nell’esperimento, citato nel libro, dei roditori aggressivi se solitari. Ma, più in generale, c’è un impatto notevole anche sulla politica. Secondo l’economista, è evidente il legame tra solitudine e populismi o movimenti di estrema destra. Del resto, lo raccontava anche Hannah Arendt nelle Origini del totalitarismo, per cui l’essenza di quest’ultimo era «la solitudine, una delle esperienze più disperate e radicali di un uomo».

E oggi, invece, signora Herzt?
“I populisti sfruttano sempre più la solitudine per guadagnare consensi. Nel libro ci sono studi sul consenso molto alto che per esempio aveva Jean-Marie Le Pen in Francia nel 1992 tra le persone più solitarie o abbandonate. Ma lo stesso possiamo dire di molti sostenitori del partito xenofobo in Olanda Pvv, di Donald Trump in America, o di Matteo Salvini in Italia: più che per altri politici, i loro seguaci hanno meno amici, meno conoscenti e spendono più tempo da soli”.

Lei di Salvini cita gli ossessivi “amici” rivolto ai suoi fan, ma anche le parole come “mamma” o la “Lega è una grande famiglia”, per esempio.
“Leader come questi, in un momento storico di disuguaglianze crescenti, colmano il vuoto lasciato dalla sinistra, dai sindacati, ma anche dalle religioni. Perciò, simili movimenti, molto spesso di destra, attirano sempre più persone specialmente se sole”.

Negli Stati Uniti tre adulti su cinque si dichiarano “soli”, secondo uno studio menzionato nel libro, e il 60% degli inglesi non conosce il nome dei propri vicini.
“La solitudine è un problema anche molto costoso: negli Stati Uniti è stato stimato un costo delle relative conseguenze fisiche e mentali pari a 7 miliardi di euro all’anno per la sanità americana e due per quella britannica. Ma la solitudine è anche molto utile, perché è più ricettiva verso la narrativa delle tradizioni e del senso di comunità che oggi incarnano tali movimenti populisti. Tanti che ho intervistato mi hanno proprio raccontato che andare a un comizio di Trump o a una sagra della Lega sono stati alcuni dei loro pochi momenti di socializzazione”.

I “forgotten men” di Trump, “i dimenticati”.
“Esatto. Sono coloro abbandonati non solo dalla società, ma, negli ultimi tempi, anche dalla politica e dall’economia. Per questo la solitudine è un fattore cruciale. Le persone sole sono sempre di più nel mondo: pensiamo non solo al lockdown e allo smart working, che hanno un impatto estremo, ma anche, in tempi normali, alla crescita del numero di single, oppure le città sempre più alienanti. Questi cittadini con interazioni minime nel mondo reale, nelle loro spirali mentali tendenzialmente percepiscono il mondo esterno più ostile e minaccioso di altri individui. I social network e Internet, che si basano sulla compulsività tematica dei loro algoritmi, estremizzano ancora di più le posizioni di queste persone, anche perché molto spesso la loro “comunità” non è reale, ma online. Risultato: i populisti riescono a conquistarli molto più facilmente di altri politici”.

Le altre forze politiche più progressiste e liberali come possono reagire secondo lei?
“Al di là di contenuti come la lotta alle disuguaglianze e un freno al neoliberalismo estremo, il centrosinistra e la sinistra devono imparare a parlare la stessa lingua dei populisti. E cioè con le emozioni, l’empatia. Non solo con i fatti. Che sono importanti, certo. Ma oggi, più che in passato, le emozioni sono decisive”.

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