RIPARARE IL CAOS

di Slobodan Snajder

 

Da quando il mio editore viennese (Zsolnay-Verlag) pubblicò la traduzione tedesca del mio romanzo cambiando il titolo originale, la sua soluzione fu adottata da tutti gli altri, a parte quelli slavi (finora, oltre all’edizione in tedesco, ne sono uscite in macedone, italiano — La riparazione del mondo — olandese, francese). Quindi nei titoli di quelle traduzioni appare la parola «riparazione».

Questa soluzione è ben giustificata dal romanzo, ed è pure il titolo di uno dei capitoli. Non solo: quella parola — riparazione — in qualche modo condensa l’intero romanzo. Questo infatti riguarda un mondo in disordine, un formicaio distrutto, che ha una forte urgenza di essere riparato. Benché il tempo del romanzo finisca più o meno nei primi anni Novanta, ossia durante l’agonia di una patria comune jugoslava, una patria per modo di dire, ma comunque una patria, quel mondo è nello stesso tempo anche il nostro attuale. Questo infatti è stato colpito in modo forse ancora più grave, e la sventura è ancora più universale. Quel titolo, quindi, è buono, ma io mi riservo il diritto di pensare che il titolo croato, sia pur non altrettanto riassuntivo, sia più poetico (Doba mjedi, «L’era del bronzo»).

Ecco, oggi una peste in versione contemporanea tocca tutti, cambia la vita di ognuno.

Nel romanzo il titolo traduce, in modo letterale, un concetto che appartiene al giudaismo: tikkun olam. Non si tratta di una furtiva appropriazione da una ricca tradizione. Essa è difatti così ricca che potrà facilmente tollerare questo prestito da parte di un «occidentale» che in linea di principio appartiene a una diversa teologia.

Tikkun olam per gli ebrei significa molte cose, e nel corso di molti secoli il significato di questo concetto ha subito cambiamenti e integrazioni. In epoche recenti l’accento si è spostato più sulla vita, per non dire sulla quotidianità. La riparazione del mondo è quanto ogni ebreo deve fare, per poco che sia l’effetto, ai fini di un mondo migliore, ossia della sua riparazione. Certamente, tutto per la maggior gloria di Dio: Ad maiorem Dei gloriam, il motto che i gesuiti avevano sui loro vessilli. Ma i gesuiti, sia pure non tutti, erano combattenti di una chiesa militante, ecclesia militans, e il loro regno di Dio aveva ambizioni real-politiche. Agire secondo il precetto che per gli ebrei, ortodossi o riformati, deriva da ciò che essi intendevano come tikkun olam significa dedicarsi ai più vicini nell’afflizione, che oggi sarebbero i migranti (come gli ebrei nelle loro diaspore sono sempre stati), così come tutti coloro la cui mera sopravvivenza dipende da un’elemosina. E questi in Europa, soprattutto in Germania, che somiglia sempre più a una barca sovraccarica, sono sempre più numerosi.

Il mondo in cui non occorrerebbe salvare nessuno sarebbe un mondo migliore. Ma il nostro mondo non lo è.

In realtà, quella stessa parola — riparazione — ha anche un’altra accezione: riparazione di guerra. È il risarcimento che i vincitori pretendono dai vinti. Con le riparazioni intendono ricostruire quanto è stato distrutto a casa loro. Questo indennizzo riguarda perfino i morti, cioè gli ammazzati. I risarcimenti imposti alla Germania dopo la Prima guerra mondiale contribuirono in modo significativo alla nascita dei germi di risentimento di cui uno si incarnò in Hitler. Le riparazioni relative alla Seconda guerra mondiale neppure oggi si possono considerare risolte, esempio ne siano le richieste polacche nei confronti della Germania, e certo anche nei confronti della Russia sovietica. Infatti la Polonia fu fatta a pezzi come un cadavere macellato da molti, e di questo tratta la parte centrale del mio romanzo.

Dal momento che le riparazioni del mondo sono sempre state necessarie e reclamate da ogni parte, perfino da coloro ai quali in questo mondo non è andata male (tutt’altro), si sono sempre fatti avanti molti riparatori del mondo. Non si tratta di coloro che agiscono secondo i dettami del tikkun olam, penso invece ai riparatori del mondo dalla vasta portata socio-politica, cioè a coloro che ragionano nel senso della storia internazionale (o almeno così si lusingano), ossia agli ideologi. Il mercato delle idee è come un qualsiasi altro mercato: ha successo colui che soddisfa una domanda. E ogni idea, anche la peggiore, troverà nel mondo la sua borsa. Ci sono molti maestri in quell’ambito.

Oltre a quest’ultimo significato, come riparazione si può intendere anche quella per esempio di una lavatrice. Qui non c’è proprio alcun significato storico internazionale, ma l’artigiano che ripara quell’elettrodomestico di sicuro non recherà danno a nessuno.

Grande o piccola la necessità di una riparazione, è chiaro comunque che è acuta. Soprattutto dopo quella nuova apocalisse che nei Balcani è già riuscita a vedere tutti i suoi quattro spietati cavalieri, nel loro biblico ordine di apparizione: il primo su un cavallo pallido sta per gli istigatori di odio e i sostenitori della guerra civile (!), il secondo proclama egli stesso quella guerra, il terzo la fame e la peste (!), il quarto ha un nome, ed è Morte. Quando considero queste quattro allegorie tendo a pensare che l’ispirato autore dell’Apocalisse non l’abbia scritta sull’isola di Patmos, nell’Egeo dove l’apostolo Giovanni sarebbe stato esiliato dall’imperatore Domiziano tra il 95 e il 100 dopo Cristo, bensì da qualche parte in quelle tenebre balcaniche descritte così bene dal nostro Ivo Andric.

È arrivata, quindi, ancora una volta la peste.

È molto istruttivo rileggere l’introduzione del Boccaccio al Primo giorno del Decameron. E i relativi capitoli dei Promessi sposi di Alessandro Manzoni. Quest’ultimo narra della peste di Milano del 1630. Perché proprio Milano, sede del mio editore Solferino? Sembra che a Milano o nei dintorni anche questa peste dell’era moderna abbia registrato le sue prime vittorie. E più o meno nello stesso periodo la peste ha colpito anche Zagabria! Manzoni riuscì perfino a risolvere, su base documentaria, l’attuale problema del primo portatore di contagio: era un soldato tedesco, quindi uno straniero.

In quelle due fonti — Giovanni Boccaccio e Manzoni — trovo numerosi e spaventosi paralleli con il mondo d’oggi che, terrorizzato, grida che vuole essere riparato. Vedo la disperazione e soprattutto il panico, in tutte le sue gradazioni, a partire dalla più cupa, mista a incredulità: quanti all’inizio si sono fatti beffe di quel virus, da Trump in poi, perfino molti medici. Poi leggo del panico che esplode e distrugge dall’interno l’edificio sociale, come le case degli indesiderati serbi, croati, musulmani — era facile diventare indesiderato nei Balcani degli anni Novanta — venivano distrutte con bombole a gas sistemate nelle loro cantine.

Poi, in entrambe le fonti vedo lo sconcerto ai vertici del potere, il modo in cui la classe politica dimostra la sua inadeguatezza. Infine, posso seguire le pratiche magiche messe in atto dalla popolazione, mentre i dottori, con grandi becchi sul volto, si dibattono fra questo o quello, niente di sicuro. Manzoni dice che a un certo momento la gente cominciò a ungere le panche delle chiese. Istruzioni del genere, irrazionali, o addirittura magiche, le sento anche a Zagabria. Con i microscopi elettronici noi vediamo la spietata Mrs Corona, ma la sua natura ci sfugge. I fiorentini dell’epoca del Boccaccio ritenevano che la peste di diffondesse con le esalazioni delle paludi… Ma tutti, prima o poi, giunsero all’idea che la fonte del contagio fosse l’Altro. E anche il vicino, il più vicino. Entrambi i classici descrivono il modo in cui le comunità diventano insensibili, si spengono tutti i sentimenti e tutti i legami sociali… e si diffondono rigogliose le teorie complottiste (!).

Alla fine i morti seppelliscono i morti.

Non siamo lontani da tutto ciò. Ed è naturale che in questa situazione si facciano sentire i maestri che risolverebbero tutto in fretta e sconsideratamente. L’eterno fascismo (nel senso del lucido saggio di Umberto Eco) voleva risolvere tutto in questo modo. Ma alla fine tutto andò a finire nelle… riparazioni. Ma se sono ingenti, poiché si tratta in primo luogo di perdite relative alla sostanza della vita, è impossibile saldare il debito. Ma non è impossibile colpire per esempio i migranti. Come gli italiani dei tempi del Boccaccio e del Manzoni, noi tutti in qualche modo intuiamo che l’untore è l’Altro.

(traduzione di Alice Parmeggiani)

 

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