Ultimamente non si fa in tempo a metabolizzare le novità sulla scuola che subito ne escono delle altre, bozze rimaneggiate di recenti bozze che, a loro volta, modificano disposizioni impartite solo qualche mese prima. Se ne occupa il Ministero, gli stanno dietro i sindacati. Roba di decisioni prese in qualche luogo asettico da qualcheduno sulla base di chissà quale criterio. Allora mi fermo a riflettere – con l’intento di impedire che l’accumulo forsennato di notizie che condiziona il nostro tempo stritoli i ricordi accumulati, le voci, i visi conosciuti e persino le fatiche quotidiane – su quella che è stata la mia prima esperienza da insegnante di Lettere in un istituto professionale ficcato tra i monti della magica Sila calabrese. E mi convinco che qualcosa proprio non va, che distanze siderali separano la vita degli alunni da astruse e – a noi comuni mortali – incomprensibili scelte di palazzo. Ma questo si sapeva già, così come si sapeva che avvicinarsi, col desiderio di essere utili, all’ingarbugliato limbo burocratico che è la scuola italiana richiede pazienza, fortezza, giustizia e temperanza; e una mente tanto elastica da districarsi fra un poker di graduatorie – provinciali, d’istituto, di merito e ad esaurimento – e un bel bottino di crediti e punteggi.
Come dire: vi selezioniamo in base al vostro limite di sopportazione di cotanta disorganicità, anziché per quello che potreste offrire umanamente e culturalmente ai nostri ragazzi. Perché il problema sta proprio qui: lungi dal volere generalizzare una realtà tutt’altro che monocroma, e lungi dal voler puntare il dito contro qualcuno – proprio io che di vita in classe ne ho passata così poca – vorrei sommessamente azzardare a dire che la scuola italiana sta perdendo umanità, empatia, semplicità, tutta volta com’è a quel tronfio miscuglio trita-anime fatto di primati, competizioni, successi, fama ed encomi che si ottengono grazie alla dorata e imprescindibile triade di capacità-abilità-competenze: manna dal cielo per integerrimi docenti devoti al totem della programmazione dipartimentale. Non è certo uno sterile e banale anticonformismo che mi spinge a parlare così, ma fatti ed eventi della mia esperienza, di cui conservo gelosamente storie, sguardi, lacrime e sorrisi. Perché si sa, esistono casi e casi, ciascuno differente dall’altro, con proprie e incomparabili congiunture, risvolti, caratteri; le opinioni, d’altronde, devono essere conseguentemente e necessariamente molteplici, tutt’altro che assertive e incontestabili. Come ogni situazione della vita. Concetto elementare, ma sorpassato e infangato nell’era della massificazione lobotomizzata.
Dunque, ecco la mia storia. Quando misi piede per la prima volta in quella scuola, pensai – e di questo me ne vergogno ancora – che di peggio non poteva capitarmi. Poi entrai in classe e pensai fulmineamente che le speranze di poter recuperare quei ragazzi fossero pochissime. Non perché non fossero intelligenti, anzi. Il loro approccio disincantato alla vita era ammirevole. Ma perché qualcuno, prima che arrivassero lì, aveva fatto loro del male facendogli credere che la scuola è il grande nemico da abbattere e bullizzare. Un alieno fastidioso che intralcia il loro cammino già, per molti versi e ragioni, duramente segnato. Il luogo orribile in cui mandar giù informazioni inutili di epoche sconosciute. E se non lo fai, va bene lo stesso, la promozione è comunque nelle tue mani: un porto di mare, un via vai di giovani vite trattate come patate bollenti da scaricare ai professori del grado successivo. E così sono arrivati da me, a quindici anni, senza saper distinguere tra vocali e consonanti né azzeccare un’acca, spaesati, instabili, insofferenti ai banchi e alla disciplina, convinti che è giusto così, che della loro fantasia recisa, della lingua rinsecchita, dello spirito riarso annodato a un’anoressica cognizione del mondo, non importa a nessuno. E che quell’edificio non è altro che un parcheggio in cui sostare fino all’età dell’obbligo scolastico; poi, arrivederci e grazie, hic sunt leones.
“Negli anni abbiamo visto di tutto, ma mai situazioni simili”, “Signorina, è sicura di voler accettare l’incarico?”, “Qui sì che si temprerà il carattere: vedrà che poi ambientarsi in ogni altra scuola sarà una passeggiata”: i primi giorni, appena mi affidarono quelle due classi, era un ripetersi di osservazioni simili. Cosa avrei dovuto fare? Ostinarmi a recitare la parte dell’indefessa insegnante fresca di laurea abbindolata da grandiose aspettative, convinta che con un sorriso e quattro versi alla Whitman avrei fatto “la differenza”? Ma io non ho mai sopportato gli edulcorati e disattenti ritratti della realtà, e così iniziai a guardare ai fatti per quello che erano. Facce rassegnate a una vita sempre uguale da consumare tra piazze e bar di un paese invalicabile; sguardi ignari delle infinite possibilità su cui ogni adolescente dovrebbe golosamente soffermarsi prima di scegliere compiutamente l’ideale quotidiano a cui votarsi. A guardarli e a guardarmi, sembravano loro gli adulti e io la ragazzina credulona a cui far aprire gli occhi sull’effettiva realtà di come gira il mondo. Ma il punto è proprio questo: quei ragazzini, adulti lo erano per davvero. La gara del primo giorno per ottenere il posto migliore, i compiti in classe come occasione di vita, la trepidante attesa della gita di fine anno; e poi la spensieratezza della ricreazione, le ansie delle interrogazioni a sorpresa, la scrupolosità esagerata nel compilare il calendario delle lezioni e annotare i compiti per il giorno dopo: di tutto ciò ai miei alunni non importava nulla, perché loro avevano questioni ben più serie nella testa e fra le mani: campi da coltivare, animali a cui badare, famiglie svuotate (chi morto ammazzato, chi al Nord a lavorare), lettere da scrivere ai padri in carcere da un’eternità.
Ma noi docenti, soldati di un Ministero distratto, siamo stati addestrati a compilare scartoffie essenziali, urgenti, indispensabili, da cui – a quanto pare – dipende il futuro dell’intera umanità. Ma cerchiamo di essere realisti: in classi con situazioni così allarmanti, in una società così fragile da aver quasi dimenticato i suoi giovani figli, cosa volete che contino robe come PFI, PIA, PAI, UDA e altre vacue sigle decontestualizzate? Ma davvero crediamo che un’entità centrale, il Ministero, che si pensa onnisciente e onnipresente ma di fatto sprovveduta e ignara di ciò che accade tra i corridoi di ogni istituto, possa far fronte con un’unica direttiva, un unico modus operandi, alle diversissime problematiche che si annidano nelle maglie labirintiche di remote scuole della provincia italiana? Vogliamo una scuola digitalizzata, al passo coi tempi (“colorata”, stando alle ultime dichiarazioni dell’attuale Ministro!), pronta ad aprirsi a scenari globali. Bene, ma prima è stato fatto un sopralluogo nelle scuole di tutto il Paese? Si è presa coscienza del fatto che per quante scuole hanno eccelso nella didattica a distanza, ce ne sono altrettante in cui un indirizzo e-mail è un’utopia? Che se nelle scuole di città in primo superiore decanti Omero, appena ti allontani dal centro ti ritrovi in atmosfere anni ’50 a urlare dettati di ortografia a ragazzi tutt’altro che scolarizzati? No, non mi pare di aver mai visto un ispettore del Ministero da quelle parti.
E, andando a monte, si è coscienti delle sofferenze esistenziali di ragazzi arrabbiati che, in fondo, non vogliono altro che ascolto e comprensione? Anche qui la risposta è no, non si è affatto coscienti di ciò, perché nel programma ministeriale – che si rincorre con l’affanno senza mai avere il tempo di terminarlo – qualche ora trascorsa semplicemente a parlare con i ragazzi, e magari a pensare a un modo per aiutarli insieme a figure specializzate, non è contemplata. Sono contemplate riunioni interminabili per riempire moduli e cartelline – che Dio solo sa dove finiranno – ma non per discutere apertamente e senza fronzoli di ciò che accade nelle vite dei nostri adolescenti. Non c’è tempo per fare due più due e concludere che se una ragazzina tira calci con una forza tale da creare una voragine nel muro, è perché le hanno rinviato la visita natalizia al padre che si trova a mille chilometri di distanza in un carcere di massima sicurezza dove sta scontando una pena di trent’anni. Che se un ragazzino scardina una porta o appicca il fuoco tra i banchi magari è perché i genitori lo hanno lasciato solo e a lui ci pensa l’anziana nonna che a stento ricorda di svegliarlo la mattina. Ma c’è tempo, pochissimi secondi, per chiudere la faccenda con un bel “Eh vabbè, qui la situazione è particolare, si sa. Hai capito di chi sono figli?!”. Compito educativo assolto, ora tutti a casa a riposare. No, proprio non ce la facciamo a guardare in faccia la realtà. Ad accettare – ma questo significherebbe ingegnarsi svariati approcci quanti sono i caratteri, le storie, le situazioni che popolano le scuole del Paese – che ogni luogo ha una sua identità che non può essere uguale alle altre; che ogni paese è come una famiglia, con dinamiche tutte sue che ci si deve sedere e capirle se si vuol mantenere la pace domestica. Che ogni scuola è una comunità a sé e che ogni ragazzo è fatto a suo modo, ogni giorno diverso persino da se stesso.
Io i miei ragazzi li ho ascoltati, li ho rincorsi in cortile quando scoppiavano in lacrime, li ho recuperati per strada quando a scuola non volevano più starci. Non è stato facile e il più delle volte ho fallito. Molti di loro mi avranno già dimenticata, alcuni forse mal sopportata. Ma in quei momenti, difficili e complicati, io ero lì con loro. E ho lasciato che raccontassero, in temi scritti e racconti orali, le crepe dei loro sentimenti, assorbendo io stessa nervosismi che non toccherebbe a loro vivere, con la speranza di alleggerire i loro cuori. Li ho convinti a sforzarsi a immaginare un sogno: alcuni non riuscivano proprio a capire la traccia e mi chiedevano “Prof ma che significa sognare qualcosa per il futuro? La vita questa è, e questa rimane”. A quindici anni. Tutte le task-force impegnate a scalettare graduatorie e conferire punti agli aspiranti docenti si rendono conto dei crimini che si stanno compiendo sul piano umano e sociale? Non che voglia difendere i miei alunni a spada tratta: mi hanno fatta impazzire talmente tante volte da farmi spesso venir voglia di mollare tutto e abbandonarli a loro stessi. Ma allora noi docenti a cosa serviamo? Facile fare scuola con chi è quieto e studioso. Qui qualcosa ha fallito: la famiglia? La scuola elementare e poi quella media? Lo Stato? Ma lo Stato chi è? Tutti se ne infischiano. In un recente intervento dell’attuale Ministro ho sentito parlare di scuola “inclusiva”. Ma inclusiva di che? Io ho visto solo esclusi ed emarginati. Ho sentito e letto di progetti riservati alle scuole più meritevoli, di encomi ai microfoni dei Tg rivolti alle scuole che danno lustro al Paese. E le altre dove le mettiamo? L’istituto professionale in cui ho insegnato, nelle folte montagne della Sila, raggiungibile dalla costa dopo quaranta chilometri di curve deserte e alienanti – e con esso tante altre scuole professionali di provincia – che spazio occupa nell’agenda del Ministero?
La realtà vera è che ci si è dimenticati di loro. Qualcuno ha avuto la faccia tosta di pensare che formare questi ragazzi non fosse necessario, che sarebbe stata una perdita di tempo. Perché tanto avrebbero fatto, nel migliore dei casi, i contadini, i pastori, le estetiste, le parrucchiere. Quindi, a che pro insegnare loro a parlare e a scrivere? Inorridisco. Qui si tratta di crimini contro il diritto a emanciparsi. La Costituzione, uno sfasciume pendulo di promesse disattese. Ditemi, fa così strano immaginare un contadino tornare a casa alla sera e perdersi tra i destini di Spoon River, le epopee di Steinbeck, le città di Pavese e le campagne di Alvaro? Sarei fuori dal mondo se pensassi che un’estetista possa appassionarsi alle avventure di Verne, ai salotti ottocenteschi della Austen e agli irrinunciabili versi di Leopardi? O, molto più semplicemente, sono matta se penso che gli studenti degli istituti professionali, in quanto donne e uomini, debbano sapersi esprimere anche in italiano oltre che in dialetto? E conoscere com’è fatto il nostro pianeta, e le vicende dei nostri antenati, e la struttura del corpo umano, e le capitali dei Paesi del mondo, e la grazia di un dipinto? E magari – perché no? – la Costituzione della Repubblica? Troppi pregiudizi, troppi luoghi comuni stanno affossando la nostra società.
Un giorno, appena iniziai a leggere per loro un romanzo, Giuseppe mi interruppe e disse: “Prof, ma a cosa mi serve conoscere le storie degli altri? Ho già la mia, che non importa a nessuno”. Qui parliamo di distruzione premeditata. Di cosa? Dell’autostima, in primis. Poi della fantasia, della curiosità, del confronto, della consapevolezza che esiste altro intorno a noi e che sarebbe straordinario scoprirlo e farlo nostro. Ma, d’altronde, come posso sperare che si lascino affascinare dagli infiniti mondi offerti generosamente dalla letteratura, se fin dalla nascita le loro orecchie fanno da imbuto a storie tragiche e soffocanti? Sapete come le prime settimane riuscii a raccoglierli intorno alla cattedra e a cavargli qualcosa di bocca? Chiedendo loro cosa fosse quella struttura fatiscente dietro la scuola. Senza stupore, con naturalezza, mi raccontarono di quel vecchio cinema ormai dismesso in cui decenni prima un ragazzino fu ucciso, pare per sbaglio, dai suoi amici. “Ma non dovete meravigliarvi prof, qui succede anche questo. Funziona così, quando c’è un problema n’ammazzamu comu nenta”. Rita era sempre impetuosamente schietta quando raccontava i fatti del paese. Conosceva persino i dettagli più cruenti dell’omicidio di cui fu accusato il padre: “ma lui non c’entra niente, prof, presto tornerà a casa, me lo sento”. Mentre Pietro, con inaspettata austerità, sbottava: “Perché siete qui, prof? Chi ve lo fa fare? Noi siamo una causa persa”.
Capite bene che di un manuale di tecniche narrative, sinceramente, non sapevo proprio cosa farmene. Perché se intendiamo la scuola come mero luogo di trasmissione della conoscenza, anziché posto in cui si compie il dolcissimo miracolo della nascita di relazioni tra esseri umani, allora abbiamo fallito tutti. Fallisco se mi giro dall’altra parte quando Marta ha una crisi di panico e mi confida che un’angoscia opprimente la risucchia inspiegabilmente, ogni giorno, verso un buco nero profondissimo; quando Marco offende i professori e scaglia i banchi contro i compagni perché la morte della mamma fa ancora troppo male; quando Francesca si cruccia fino allo spasimo per la sua ossessionante insicurezza; quando Anna mi racconta che è talmente nervosa da non riuscire a dormire la notte, e che no, l’assassinio del padre proprio non riesce ad accettarlo, portandolo nel cuore come Gesù Cristo la Croce. Chissà se a Viale Trastevere, mentre si arrovellano il cervello sulle delicate questioni banchi con le ruote o banchi senza ruote, mascherine in stoffa o mascherine chirurgiche, ogni tanto, così, anche solo distrattamente, pensano a questi ragazzi, escogitando con un po’ di compassione qualche brusca sterzata; e chissà se hanno saputo che quegli “assistenti sociali” che mi hanno mandato – e che una seconda volta non ci sono tornati – mi guardavano disorientati aspettando da me indicazioni sul da farsi.