Il fattore Renzi sulla Toscana

L’obiettivo è la segreteria Zingaretti, che uscirebbe da questa tornata elettorale, essendovi entrata con la guida di quattro amministrazioni contro due, battuta in un insostenibile cinque a uno. E come si diceva una volta nel linguaggio della battaglia navale, colpita e affondata nella terza regione dopo Umbria e Marche (anch’esse in bilico), e seconda per importanza, del blocco di centrosinistra fino a poco tempo fa considerato inossidabile e inespugnabile, e infine, se le cose andranno per il peggio, ridotto alla sola Emilia-Romagna difesa da Bonaccini.

Per qualche ragione gli elettori toscani che per cinquant’anni, attraverso Prima, Seconda e Terza Repubblica, si sono affidati alla sinistra, stavolta dovrebbero scegliere la destra, che pur avendo una candidata forte, la sindaca Ceccardi, non ha un programma così valido e realizzabile da convincerli al cambio? Innanzitutto, verrebbe da dire, perché lo hanno già fatto in molte elezioni comunali. Fino al 2013 il centrosinistra governava in dieci città capoluogo su undici, ma nel 2018 la situazione si è capovolta: solo tre, Firenze, Lucca e Prato, sono rimaste alla sinistra, con l’aggiunta di Livorno, che è stata sottratta ai 5 stelle (ora alla guida solo di Carrara). Pisa, Siena, Arezzo, Massa e Pistoia sono passate al centrodestra, che adesso governa mezza regione, anche se Firenze, salvata da Nardella, da sola vale quasi l’altra metà. Sulla carta, insomma, la vittoria di Salvini e dei suoi alleati è possibile, anche se il voto per la Regione è diverso da quello per le città e proprio in quest’occasione ha acquistato rilievo nazionale.

Sul perché questo sia potuto accadere, si può discutere. Per decadenza, ma poi non così tanta, della qualità dell’amministrazione regionale, un tempo esempio assoluto di buongoverno. Per incertezze nella politica sull’immigrazione, materia in cui, si sa, Salvini è maestro. Per debolezza del candidato governatore: Giani, appunto, non è Bonaccini. Per mancata pianificazione di uno schieramento di liste locali – come in Campania, dove De Luca prepara il suo trionfo anche con l’aiuto dei vecchi dc Pomicino e De Mita – qui non consentito da Renzi, a caccia di riscosse per le proprie liste e i propri candidati. Ma anche perché la Toscana è il luogo di tutte le vendette che hanno contrassegnato la vita recente del centrosinistra.

Laboratorio, tra i più importanti, della scissione antirenziana che portò alla nascita di LeU, di cui il governatore uscente Rossi è uno dei fondatori. Incubatrice del Giglio magico, poi spaccato sulla nascita del partito renziano “Italia viva”: il sindaco di Firenze, Nardella, il capogruppo dei senatori, Marcucci, e la segretaria regionale Bonafè, fedelissimi dell’ex-premier, sono rimasti con il Pd. E poi trascurata da Zingaretti, che ha capito in ritardo l’insidia della sconfitta, e dall’attuale gruppo di comando romano e laziale del partito, che potrebbero essere rovesciati.

Ma alla fine, come nel meraviglioso film di Ridley Scott «I duellanti», il segretario e il suo predecessore rischiano insieme: uno, Zingaretti, perché ha lasciato fare il suo ex senza arrivare a credere che, perfino dall’esterno del Pd, avrebbe cercato di organizzare un congresso per disarcionarlo. E l’altro, Renzi, perché è ricaduto senza accorgersene nello stesso errore che lo portò nel 2016 al disastro che gli fece perdere il governo e presto lo avrebbe estromesso anche dalla guida del partito: aver trasformato il voto in un referendum su se stesso, senza capire che era diventato antipatico agli italiani, e cercar di riproporre lo stesso gioco nella sua terra, convinto che mai e poi mai potrebbe tradirlo.

Tutto questo, infatti, è avvenuto sotto gli occhi dell’elettorato toscano: e poi ci si meraviglia se ha voglia di voltare pagina.

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