I corpi e l’anima
Ansia, depressione e stress post-traumatico. L’eredità psicologica del Covid rilancia il bisogno di politiche nazionali di salute mentale. Sulle quali regna, invece, un grande silenzio
Marco Pacini
È un po’ come vivere «continuamente sotto la mannaia di un’attesa». Autorecluso in una clinica psichiatrica svizzera per curare una nevrosi depressiva, tra il 1970 e il 1971 Ottiero Ottieri teneva una sorta di diario di bordo della sua malattia, sezionava la propria sofferenza, “assaporava” la noia, paragonava il proprio disagio al carico di una nave in una «stiva che sbanda». Ne uscì uno dei suoi libri migliori, “Il campo di concentrazione” (Guanda), riproposto in questa folle estate del Covid, vissuta in bilico tra le opposte “prescrizioni” a tutela della salute fisica e di quella mentale; tra l’ossimoro del “distanziamento sociale” e la necessità della libertà dei corpi. «Perfino il toccare il corpo, che è il medium, individuale e insieme sociale, dove si scarica l’angoscia, è inibito: il “corpo organico” è ora potenziale fonte di pericolo», ha scritto poco dopo l’inizio del lockdown lo psichiatra Roberto Mezzina, ex direttore del Dipartimento di salute mentale di Trieste e oggi consulente dell’Oms. E quella del 2020 è stata l’estate dei corpi continuamente “ammoniti”, ma che si cercavano per “scaricare l’angoscia”; un’estate di angosciosa attesa che l’invisibile nemico venga sconfitto una volta per tutte, dopo la lunga noia del lockdown. Quanti hanno vissuto le mura domestiche come tanti piccoli “campi di concentrazione”? E quanti hanno affidato il proprio “vissuto” ai tempi della pandemia a diari disseminati nei social network? Per molti la riedizione del libro di Ottieri, con un tempismo non casuale, deve aver funzionato come biblioterapia se le copie sono andate subito esaurite e il libro è già in ristampa.
Ansia, depressione e stress post-traumatico sono “l’eredità” psicologica del Covid 19 e del lungo lockdown, hanno certificato qualche settimana fa due studi coordinati dall’Università di Torino e pubblicati su riviste scientifiche internazionali. II 69% degli italiani presenta sintomi di ansia, il 31% di depressione, mentre il 20% riferisce sintomi da stress post-traumatico, stando al primo studio pubblicato sulla rivista The Canadian Journal of Psychiatry. L’impatto più pesante riguarda i medici, gli infermieri e gli operatori sanitari che hanno lavorato nei reparti Covid, secondo quanto riferisce il secondo studio, più mirato. L’estate che si va consumando sulla lunga scia del lockdown, sull’altalena dei “pareri” tra ottimismo e pessimismo, tra il disagio psicologico di molti e i nuovi casi di contagio, sembra aprire scenari conflittuali tra salute del corpo e della mente.
«L’emergenza Coronavirus ha messo tutto il resto in secondo piano, condizionando e cambiando la nostra vita. Se la sanità in Italia è sottoposta a un grandissimo stress, a una sfida senza precedenti, la salute mentale, figlia di un dio minore, soffre in silenzio», ha scritto il basagliano Mezzina. Da quello scritto di marzo è nato un appello sottoscritto da molti psichiatri, ripreso dalla Conferenza nazionale salute mentale e finito sul tavolo del ministro Speranza. Successivamente è stato fatto proprio dalla World Federation for Mental Health e rivolto a tutti i governi «affinché garantiscano che vengano realizzati dei Piani nazionali per gestire le conseguenze sulla salute mentale dell’emergenza sanitaria globale del Coronavirus». «La salute mentale è un bene prezioso e una risorsa nazionale e dovrebbe essere prioritaria allo stesso modo della salute fisica»: ecco il messaggio di psichiatri e psicologi alle Task force allestite in tutto il mondo per arginare l’impatto del virus. I ricercatori dell’università di Torino autori degli studi citati vanno oltre, invitando le autorità sanitarie a «mettere in atto tempestivi programmi di screening, volti a identificare le persone con livelli di psicopatologia clinicamente rilevanti». Sarà in questa competizione tra emergenze, in questo “divorzio” tra mente e corpo, che è maturata la “folle” estate 2020 destinata a chiudersi tra mille incognite e con il rischio di essere stata solo una parentesi, a volte parossistica, di libertà nel mondo pandemico?
Non che gli psichiatri invochino un “liberi tutti”, anche dalle precauzioni minime anti-virus in nome di un diritto superiore, quello al benessere psicologico. «Eppure», secondo Roberto Mezzina, «nell’era in cui nessuno può metter in discussione la liceità di una “biopolitica” dettata dalla medicina, non c’è mai stato più bisogno di politiche di salute mentale come ora, proprio perché tutta la popolazione italiana, e prima o poi del globo, soffre un disagio formidabile, che tocca e toccherà tutti, e non solo coloro che hanno già disturbi diagnosticati di tipo psichiatrico».
La “follia”, lo stato ansioso e talvolta depressivo ha investito il “corpo sociale”, per usare un’espressione cara a Franco Basaglia. Ma non con la stessa intensità, come chiarisce il decano dei grandi psichiatri Italiani, Eugenio Borgna: «Un conto è avere trascorso quelle settimane in piccole città, un altro averle trascorse nelle metropoli. Così come è stato molto diverso averle vissute in spazi angusti o non oppressivi. In gioco è stata non solo o non tanto la solitudine ma il modo in cui la solitudine è diventata isolamento quasi autistico». Ed è in quelle circostanze che «la sofferenza psichica si è accentuata, è diventata incontrollata». Eppure, al di là delle evidenze diagnostiche, al di là dei numeri, l’estate senza estate del Covid e l’autunno gravido di incognite che ci attende, potrebbero (o dovrebbero) raccogliere, i frutti di un “campo di concentrazione” (il lockdown) «che è stato anche l’occasione», sostiene Borgna, «per riflettere, ampliare i propri orizzonti sulla vita e la fragilità della vita». Da un lato la necessità di garantire servizi adeguati «alle persone con livelli di psicopatologia clinicamente rilevanti», come hanno sollecitato i ricercatori di Torino e i firmatari dell’Appello alle autorità sanitarie di tutto il mondo preoccupati del carattere “totalitario” delle misure anti-Covid anche a discapito dei servizi psichiatrici. Dall’altro i nuovi scenari “esistenziali” che la pandemia e le sue ricadute “depressive” possono dischiudere. «A parte le situazioni di sofferenza estrema», spiega Borgna, «c’è una comunità di vissuto, il senso di un’inconscia solidarietà. Una delle conseguenze che ha avuto questa drammatica esperienza è quella di sentirci consciamente o inconsciamente solidali». E mentre stiamo per congedarci da un’estate bramosa di vita, di vita “normale”, sarà probabilmente l’esperienza della morte il lascito «migliore», per lo psichiatra-filosofo, autore di libri fondamentali a cavallo tra i due saperi: «vivere insieme l’angoscia di tutti e soprattutto l’angoscia della morte». «Si moriva un po’ tutti in quelle prime settimane», osserva Borgna, «la vedevamo camminare insieme a noi, e l’esperienza della morte può lasciare qualcosa di positivo. La vita che si oppone alla morte è stata condivisa da tutti». La vita insieme, corpo a corpo, che l’estate del Covid ha fotografato e sanzionato, bramato e fuggito, è l’orizzonte oltre i muri dell’ansia, della depressione. «Obbligati a forme di vita sconosciute», conclude Borgna, «ci siamo accorti dell’importanza che certe relazioni avevano nel momento in cui le stavamo perdendo; in tutti c’è stata una diversa percezione di quello che significavano le relazioni sociali. La cui mancanza è una delle più dolorose premesse alla sofferenza che la psichiatria constata».
«L’emergenza Coronavirus ha messo tutto il resto in secondo piano, condizionando e cambiando la nostra vita. Se la sanità in Italia è sottoposta a un grandissimo stress, a una sfida senza precedenti, la salute mentale, figlia di un dio minore, soffre in silenzio», ha scritto il basagliano Mezzina. Da quello scritto di marzo è nato un appello sottoscritto da molti psichiatri, ripreso dalla Conferenza nazionale salute mentale e finito sul tavolo del ministro Speranza. Successivamente è stato fatto proprio dalla World Federation for Mental Health e rivolto a tutti i governi «affinché garantiscano che vengano realizzati dei Piani nazionali per gestire le conseguenze sulla salute mentale dell’emergenza sanitaria globale del Coronavirus». «La salute mentale è un bene prezioso e una risorsa nazionale e dovrebbe essere prioritaria allo stesso modo della salute fisica»: ecco il messaggio di psichiatri e psicologi alle Task force allestite in tutto il mondo per arginare l’impatto del virus. I ricercatori dell’università di Torino autori degli studi citati vanno oltre, invitando le autorità sanitarie a «mettere in atto tempestivi programmi di screening, volti a identificare le persone con livelli di psicopatologia clinicamente rilevanti». Sarà in questa competizione tra emergenze, in questo “divorzio” tra mente e corpo, che è maturata la “folle” estate 2020 destinata a chiudersi tra mille incognite e con il rischio di essere stata solo una parentesi, a volte parossistica, di libertà nel mondo pandemico?
Non che gli psichiatri invochino un “liberi tutti”, anche dalle precauzioni minime anti-virus in nome di un diritto superiore, quello al benessere psicologico. «Eppure», secondo Roberto Mezzina, «nell’era in cui nessuno può metter in discussione la liceità di una “biopolitica” dettata dalla medicina, non c’è mai stato più bisogno di politiche di salute mentale come ora, proprio perché tutta la popolazione italiana, e prima o poi del globo, soffre un disagio formidabile, che tocca e toccherà tutti, e non solo coloro che hanno già disturbi diagnosticati di tipo psichiatrico».
La “follia”, lo stato ansioso e talvolta depressivo ha investito il “corpo sociale”, per usare un’espressione cara a Franco Basaglia. Ma non con la stessa intensità, come chiarisce il decano dei grandi psichiatri Italiani, Eugenio Borgna: «Un conto è avere trascorso quelle settimane in piccole città, un altro averle trascorse nelle metropoli. Così come è stato molto diverso averle vissute in spazi angusti o non oppressivi. In gioco è stata non solo o non tanto la solitudine ma il modo in cui la solitudine è diventata isolamento quasi autistico». Ed è in quelle circostanze che «la sofferenza psichica si è accentuata, è diventata incontrollata». Eppure, al di là delle evidenze diagnostiche, al di là dei numeri, l’estate senza estate del Covid e l’autunno gravido di incognite che ci attende, potrebbero (o dovrebbero) raccogliere, i frutti di un “campo di concentrazione” (il lockdown) «che è stato anche l’occasione», sostiene Borgna, «per riflettere, ampliare i propri orizzonti sulla vita e la fragilità della vita». Da un lato la necessità di garantire servizi adeguati «alle persone con livelli di psicopatologia clinicamente rilevanti», come hanno sollecitato i ricercatori di Torino e i firmatari dell’Appello alle autorità sanitarie di tutto il mondo preoccupati del carattere “totalitario” delle misure anti-Covid anche a discapito dei servizi psichiatrici. Dall’altro i nuovi scenari “esistenziali” che la pandemia e le sue ricadute “depressive” possono dischiudere. «A parte le situazioni di sofferenza estrema», spiega Borgna, «c’è una comunità di vissuto, il senso di un’inconscia solidarietà. Una delle conseguenze che ha avuto questa drammatica esperienza è quella di sentirci consciamente o inconsciamente solidali». E mentre stiamo per congedarci da un’estate bramosa di vita, di vita “normale”, sarà probabilmente l’esperienza della morte il lascito «migliore», per lo psichiatra-filosofo, autore di libri fondamentali a cavallo tra i due saperi: «vivere insieme l’angoscia di tutti e soprattutto l’angoscia della morte». «Si moriva un po’ tutti in quelle prime settimane», osserva Borgna, «la vedevamo camminare insieme a noi, e l’esperienza della morte può lasciare qualcosa di positivo. La vita che si oppone alla morte è stata condivisa da tutti». La vita insieme, corpo a corpo, che l’estate del Covid ha fotografato e sanzionato, bramato e fuggito, è l’orizzonte oltre i muri dell’ansia, della depressione. «Obbligati a forme di vita sconosciute», conclude Borgna, «ci siamo accorti dell’importanza che certe relazioni avevano nel momento in cui le stavamo perdendo; in tutti c’è stata una diversa percezione di quello che significavano le relazioni sociali. La cui mancanza è una delle più dolorose premesse alla sofferenza che la psichiatria constata».