I Musei Capitolini espongono i dipinti appartenuti allo storico dell’arte morto cinquant’anni fa Quelle opere sono la testimonianza di una ricerca che andava di pari passo con il collezionismo E che portò alla luce i capolavori di Caravaggio e di maestri del Seicento allora sconosciuti
di Francesca Cappelletti
Nel 1951, nel catalogo della memorabile mostra su Caravaggio al Palazzo Reale di Milano, Roberto Longhi incluse la Negazione di Pietro di Valentin de Boulogne che figurava, all’epoca, in una collezione privata fiorentina; solo nei primi anni Sessanta, dopo un passaggio in una raccolta milanese, lo studioso riuscì ad acquistarla. Come è stato possibile comprendere solo in seguito, era appartenuta a Giovanni Battista Mellini, fiorentino di origine, trasferito a Roma nei primi decenni del Seicento; il nipote Pietro, nel 1681, l’aveva evocata in versi in un testo bizzarro, a metà fra il catalogo di vendita e l’erudita esercitazione poetica prossima all’ecfrasis antica, la descrizione di opere d’arte che consentiva alla poesia di misurarsi con l’arte sorella della pittura. Il dipinto, in cui alla nuova concezione del dramma rappresentato “dal naturale” si uniscono le citazioni archeologiche bene in vista, è senz’altro uno dei capolavori di Valentin, artista che Longhi, nel suo fondamentale saggio del 1943, aveva indicato come uno dei grandi protagonisti della pittura post caravaggesca. Quel testo straordinario si intitolava Ultimi studi su Caravaggio e la sua cerchia e, nella prosa inarrivabile, vi si intrecciavano letture acute e circostanziate di opere quasi sconosciute, l’entusiasmo incoercibile del ricercatore, le intuizioni fulminanti e alcune riscoperte di singolari fonti letterarie, concentrate sugli artisti del primo Seicento romano e sulle loro reazioni a Caravaggio. Una miscela inusuale e lungimirante di metodo e passione, in grado di accendere, e per lungo tempo, l’interesse degli studiosi e del pubblico per Michelangelo Merisi, un pittore che, quando Longhi aveva cominciato i suoi studi, non era che un nome, corrispondente a poco più di un personaggio romanzesco, avvolto dall’«alone di tempesta delle sue vicende mortali». Longhi giustamente mise in luce, fin dalla tesi di laurea del 1911, la carica rivoluzionaria del pittore lombardo e definì anche i personaggi vicini al maestro non degli allievi in senso tradizionale, ma anime diverse di una “scuola libera”. Riconobbe, come oggi si torna a fare, una fortissima matrice individuale in ognuno di loro e aprì la strada allo studio di artisti che solo una distrazione frettolosa poteva spingere a considerare genericamente “caravaggeschi”. Il saggio del 1943 si concludeva già con la rapida ma profonda lettura dei percorsi di Valentin de Boulogne e Giovanni Serodine, due artisti che certamente recuperarono e riempirono di senso, non imitando il maestro ma stando dentro al loro tempo, l’attaccamento al naturale di Caravaggio. L’acquisto del grande quadro di Valentin, quasi vent’anni dopo gli Ultimi studi costituisce uno degli apici di quella intenzione, affiorata ben prima, di «accompagnare (…) gli studi con qualche esemplare che in qualche modo li rappresentasse ». A questa affermazione, che spiega in modo così chiaro le ambizioni del critico-collezionista, si aggiungeva l’osservazione che, nei primi anni Venti del secolo scorso, le botteghe degli antiquari, anzi, «gli sporti dei mercati», come le chiamava Longhi, fossero pieni di quadri «che mi parevano bellissimi e che pure importavano poca moneta».
Di Valentin de Boulogne Longhi aveva sempre lodato l’indipendenza mentale nel seguire i modelli caravaggeschi. In particolare, con tutto il coraggio e improntitudine di uno straniero che viveva a Roma fra le taverne e i palazzi, il grande francese aveva avuto il merito di realizzare il Martirio dei Santi Processo e Martiniano per la basilica del pontefice, arrivando così a «piantare fieramente la vecchia bandiera caravaggesca sull’altare di San Pietro». All’inizio della sua carriera di studioso sono legati invece altri acquisti in linea con l’andamento delle sue ricerche, ma rivelatisi eclatanti solo con il tempo.
Nel 1921, a Roma, presso l’antiquario Angelelli, Longhi riuscì per esempio a comprare cinque tele che provenivano dalla seicentesca raccolta del
marchese Gavotti. Si tratta degli Apostoli, capolavoro del giovane Ribera. La storia critica di questi dipinti è davvero emblematica: Longhi li aveva comprati quando ancora poco si sapeva di Caravaggio e pochissimo di Jusepe de Ribera, arrivato a Roma giovanissimo e con un talento talmente spiccato da far sperare i contemporanei in un nuovo protagonista della pittura dal naturale. Le solenni e essenziali figure degli Apostoli, che si appropriano di uno spazio grigio e definito da netti tagli luminosi furono per decenni il rovello delle ricerche di Longhi, che li aveva avvicinati a un altro dipinto enigmatico, il Giudizio di Salomone della Galleria Borghese, creando il gruppo di un geniale maestro anonimo. È stato Gianni Papi, quasi venti anni fa, a compiere una delle più importanti scoperte per la storia della pittura seicentesca, identificando il Maestro del Giudizio di Salomone con Ribera e dando consistenza alle testimonianze delle fonti che individuavano nel maestro spagnolo uno dei più potenti interpreti della rivoluzione caravaggesca. È difficile non condividere anche le altre passioni di Longhi: l’inquieto girovagare di Orazio Borgianni fra novità contemporanee e fonti cinquecentesche, da trasferire nella materia bruciante degli autoritratti e dei quadri di devozione privata all’inizio del Seicento, la vivida attrazione di Carlo Saraceni per il naturale – che lo spinge a avventurarsi nella “pittura di paesi” – condivisa, e solo in misura minore, da Orazio Gentileschi, fra le schiere dei primi “aderenti” del Caravaggio. Longhi acquistò opere di tutti loro, ancora oggi esposte alla Fondazione che porta il suo nome e che ne raccoglie la collezione, la biblioteca e l’archivio, promuovendo le ricerche di giovani studiosi e organizzando mostre come quella che, curata da Maria Cristina Bandera ai Musei Capitolini (fino al 13 settembre), ci consente oggi di osservare anche il Ragazzo morso dal ramarro. Testimonianza della prima attività romana di Caravaggio, il dipinto entrò nella raccolta di Longhi poco prima del 1930, quando lo studioso ne trasse un disegno a carboncino. La comprensione profonda dell’opera passava anche attraverso l’elaborazione grafica, attraverso il tentativo di afferrarne la disposizione delle luci, l’espressività delle figure; anche quando le riproduceva, Longhi le interpretava, come ha sottolineato Giovanni Testori, un altro protagonista degli studi novecenteschi, curando la raccolta dei disegni di Longhi nel 1980. Nel 2018 il Ragazzo morso dal ramarro è stato esposto in un contesto diverso da quello della collezione di arte antica: quella «testa che parea veramente stridere» come l’aveva definita Giovanni Baglione, antagonista di Caravaggio, prendeva il suo posto fra le opere contemporanee che, secondo Luc Tuymans, artista e curatore della mostra Sanguine, rappresentano oggi, con la stessa forza teatrale del barocco, la reazione dell’umanità al dolore e alla violenza.
Come non ricordarsi della passione di Longhi per la sperimentazione, per il coraggio e la libertà degli artisti di tutti i tempi e la sua affermazione che «la storia passata sempre si colorisce da quella del presente».