Nei giardini della città dove tutti sapevano “O li aiutavi o botte”

— g. fosch.
PIACENZA — Fa caldo. L’aria immobile, le panchine vuote. I giardini Margherita, un parco a forma di conca di fronte alla stazione di Piacenza, erano il vanto del gruppo della Levante: «Li abbiamo ripuliti: oggi giocano i bambini, prima c’erano soltanto spacciatori», ripetevano. Due gemelline bionde, tre anni o poco più, corrono con un monopattino rosso. Isamel, algerino, è nel fondo, seduto su una panchina. «Fumo, marja, se ti serve trovo anche altro». Ismael è uno dei giardini Margherita, popolo vario fatto di nonni con i nipotini, anziani soli, piccoli spacciatori, gente con la birra perennemente in mano. Ieri anche qualche podista, e due innamorati. Ismael ha bene in mente la regola del 10 per cento. «Se aiutavi quei carabinieri a sequestrare la roba, una parte era per te. Ma io non faccio l’infame».
La regola del 10 per cento era uno degli articoli della legge personale che l’appuntato Giuseppe Montella e il suo gruppo di militari della Levante avevano imposto a Piacenza. Una città che si sentiva immune e che oggi, invece, si sveglia smarrita, spaventata: non parlano i preti — «che ho da dire io su una storia così grande?» — non parlano gli intellettuali — «grazie, ma su quella storiaccia di carabinieri no» -, negano i baristi — «il carabiniere dell’indagine? Mai visto », giurano al Grida Bar di Piazza Cavalli, quando invece il trojan inoculato nel telefono di Montella lo posiziona lì, sui divanetti in fondo, a bere e a vantarsi con i colleghi. Afona anche la politica.
Ai giardini Margherita, invece, qualcosa da dire ce l’hanno. «Loro venivano, ti prendevano, se ti andava bene ti prendevano la roba», prosegue nel racconto Ismail, «se ti andava male ti menavano». Ha raccontato ai magistrati Lyamani Hamza, un altro dei giardini Margherita. «Sono andato alla Levante perché avevo l’obbligo di firma. E c’era Montella. Mi disse in modo esplicito che se avessi avuto (per lui, ndr) qualche operazione «cotta e mangiata» una parte del denaro e dello stupefacente poteva essermi data come compenso. La mia parte sarebbe stata pari al 10 per cento». Lyamani diventò così un informatore: «Mi mettevo qui ai giardini. Montella sempre a portata di sguardo, gli altri lì al 14esimo piano del grattacielo. Quando avveniva lo scambio gli facevo un cenno».
La caserma Levante era diventata un bancomat della droga. Lo sapeva Nikita, il trans di via Torta. Un paio di pippate, in cambio partecipava alle feste di Montella e dei suoi amici. Lo sapeva Valeria, «la russa», che forse però è Ucraina: veniva a ritirare la sua dose, «la terapia» la chiamava Montella, in cambio di una prestazione sessuale qui in via Caccialupo, dove ora ci sono i sigilli sulla caserma e, davanti, un camper mobile di emergenza come quelli che si usano nei disastri. «Perché scusi questo cos’è?», dice cortese e sconsolato uno dei carabinieri inviato da Roma in sostituzione di quelli arrestati.
Disastro sono uomini in divisa che steccano la droga con gli informatori. Che organizzano in orario di lavoro pranzi al ristorante ad alto tasso alcolico, alla Taverna del Castello a Grazzano, 13 chilometri dalla città, pretendendo prezzi ultrascontati. «Quattro bottiglie di vino, liquore, passito, bargnolino, 25 euro!», diceva invece fiero, Montella, mentre alticcio rientrava in caserma.
Il ristoratore di Grazzano può ritenersi fortunato, perché i metodi del gruppo erano ben peggiori. Anche con gli amici. Lyamani, l’informatore, quando ha deciso che non era più il caso di collaborare è stato convocato alla Levante. Ed è stato pestato davanti ad altri due egiziani, anche loro spie di Montella. «Era un messaggio per tutti ».
I carabinieri menavano anche senza motivo. Lo sa un ragazzo egiziano fermato l’8 aprile in via Pennazzi. La gente che abita racconta di non aver visto e sentito. Ma le telecamere hanno ripreso tutto. Il ragazzo è stato fermato perché pensavano avesse comprato droga. Sbagliavano. Non aveva nemmeno un grammo di roba. Prima di lasciarlo andare, però, l’hanno picchiato e gli hanno rubato il portafogli.
In via Colombo, accanto a un negozio di telefoni, hanno acciuffato un ragazzo nigeriano, Anyanku Ugochukwu, piccolo spacciatore. Era fine marzo. Malmenato selvaggiamente. «Quando ho visto quel sangue per terra, ho detto: “Mo l ’abbiamo ucciso’’», racconta Montella a un collega. No, era ancora vivo. Ma per sugellare il momento l’appuntato scattò una fotografia, che teneva nel telefonino come un trofeo: il ragazzo per terra, ammanettato, pieno di sangue.
La violenza era sistema. Lo sa un concessionario auto del Veneto. Secondo Montella avevano provato a ingannarlo. «Sono andato e gli ho spaccato tutto. Ma proprio tutto. Uno si è pisciato addosso». Martedì — mentre li portavano in carcere nella notte di Piacenza — alcuni tra quelli della Levante hanno invece pianto.
e fa.to.