Stefano Bucci
La città e la campagna non sono in antitesi, anzi, si integrano e si completano a vicenda. Ma tra loro c’è la periferia dove la città si sfrangia e non è più città e la campagna perde la sua innocenza e non è più campagna. Ed è qui che nasce la necessità di un progetto a lunga durata, arrestare l’espansione disordinata della città con una green belt, una cintura verde, capace di restituire a ciascuno di questi elementi il giusto ruolo e di fecondare la periferia affinché acquisti urbanità, diventi città. Occorre un sistema rapido ed efficace di ricucitura, soprattutto oggi con il Covid-19, grazie a luoghi realizzati per la gente. Una città dove dall’integrazione e dalla consapevolezza nasca il miracolo di una nuova bellezza. Una «città territorio, dischiusa, liberata». Una città aperta che potrebbe chiamarsi Europa.
È il sogno di Renzo Piano, l’architetto per eccellenza, che sul rammendo centro-periferia-campagna ha avviato il progetto G124, nato nel 2013 dopo la nomina a senatore a vita: «Le periferie sono la città che lasceremo ai figli — spiega a “la Lettura” —, ma per troppo tempo sono state costruite senza affetto, è il momento che conquistino valori mai avuti e si integrino con il resto della citta». Una necessità confermata da una cifra: nel 2014 più di un terzo dei maturandi scelse per il tema d’italiano proprio la traccia ispirata al progetto di Piano.
Trasporti & connessioni
«L’Europa è il mio elemento naturale — spiega Piano, unico italiano con Aldo Rossi nel 1990, ad aver vinto, nel 1998, il Pritzker Prize, il Nobel dell’architettura — anche se resto profondamente italiano e genovese. E se devo immaginare il luogo ideale per una futura città diffusa, dove non ci sia contrapposizione tra centri urbani, campagna e periferie penso subito all’Europa. Perché? Perché in Europa c’è tutto: ci sono le città e ci sono i borghi con le loro case, piazze, strade, biblioteche, sale da concerti e con i loro giardini, ponti, fiumi, laghi, mari ma non ci sono deserti che sono l’unica, vera antitesi della città. È nei deserti che nascono i mostri».
Ma per costruire (o anche solo pensare) questa Città-Europa c’è prima di tutto bisogno di connessioni: «Il rammendo urbano passa necessariamente da un potenziamento della rete dei trasporti, a cominciare da quelli pubblici — precisa l’architetto — su rotaia ed elettrici. Penso a un sistema capillare con una tramvia di superfice con fermate ogni 150 metri; una metropolitana urbana con fermate ogni 300-400 metri; una metropolitana extraurbana con fermate ogni chilometro; un treno territoriale ad alta velocità con fermate ogni 100-150 chilometri». Poi aggiunge, con una nota vagamente polemica: «Oggi, soprattutto dopo l’emergenza Covid-19, si parla molto di smart working. Non mi piace però quell’aggettivo, smart (qui inteso anche come intelligente), quasi che il lavoro fisico non lo fosse: giusto, certo, potenziare l’idea di un lavoro da remoto, è una cosa necessaria, senza però dimenticare mai che la maggior parte dei lavori non può assolutamente rinunciare al contatto diretto, mestieri come quello dell’architetto dove la realtà delle cose resta la fonte più straordinaria di ispirazione, dove la forza della realtà è la fonte di tutto». E dove gli spostamenti fisici «sono e restano essenziali».
Edifici polifunzionali
Mescolare le funzioni è un altro imperativo della «città del futuro». Un imperativo che vale soprattutto per quelli che Piano definisce «luoghi per la gente»: biblioteche, musei, teatri, aeroporti, stazioni ma anche uffici pubblici, scuole, ospedali. In Grecia, per esempio, il piano terra dei tre ospedali progettati per la Fondazione Niarchos sarà destinato al day hospital, quell’assistenza ospedaliera giornaliera che non necessita di ricovero e che ha in qualche modo i ritmi di un ufficio pubblico. Stesso discorso per le scuole: «La scuola che costruiremo a Sora, Frosinone, nell’ex-mattatoio, nel mio ruolo al Senato — dice “l’architetto-condotto”, come ama talvolta definirsi — non avrà il portone chiuso, ma sarà un luogo che tutti potranno utilizzare». E i negozi? «Fondamentali, ma non siano confinati nei centri commerciali e nelle shopping-street: anche quella dei negozi deve essere una “rete diffusa” che faccia vivere tutta la città».
Luoghi di pubblica bellezza
Una campagna che diventa un po’ più città, una città che diventa un po’ più campagna, una periferia che non è degrado e che, anzi, è anche bellezza, quella che si sprigiona e che prende forma negli spazi della partecipazione, dello stare insieme, della condivisione di emozioni, stati d’animo, passioni. Quali sono questi edifici? «Scuole, università, musei, sale da concerto, teatri, cinema, biblioteche — dice Piano —, ma non solo, sono tutti i luoghi della condivisione. Sappiamo benissimo che è fantastico ascoltare un concerto a casa, ma sappiamo altrettanto bene quanto sia più affascinante ascoltare lo stessa Sinfonia di Mahler in diretta, insieme ad altre tremila persone». D’altronde anche quando si guarda un quadro: «Vedere l’originale e vedere la copia non è la stessa cosa, tra te e l’originale si stabilisce un flusso che è un valore aggiunto, è come se assistessimo in differita al miracolo della sua creazione: mi è successo quando ho rivisto dal vivo I bari di Caravaggio nei nuovi spazi che abbiamo progettato per il Kimbell Art Museum di Fort Worth».
Musei
Piano ha firmato con Richard Rogers il più rivoluzionario progetto museale del XX secolo, il Beaubourg-Centre Pompidou di Parigi, inaugurato il 31 dicembre 1977 (sei milioni di visitatori all’anno). Quel progetto è ancora attuale. «All’epoca eravamo due ragazzacci impenitenti e quel nostro progetto voleva essere prima di tutto un grido di ribellione, perché dopo il Sessantotto e i primi anni Settanta bisognava che qualcuno rompesse gli indugi, aprendo spazi che di fatto eliminavano l’idea di una cultura intimidente ed elitaria, una formula che si adatta alla perfezione a questa idea di nuova città aperta». Perché? «Perché la curiosità è la prima manifestazione della vita cosciente di una persona, ma anche della cultura». All’epoca si era gridato allo scandalo, per qualcuno, quella sua e di Rogers, era stata una dissacrazione della cultura: «Non era assolutamente quello che volevamo fare, volevamo far nascere la cultura dalla curiosità, dallo stare insieme, una cultura che si doveva rivolgere a tutti, anche a chi non è appassionato d’arte».
L’idea è quella di luoghi della cultura «aperti, accessibili, non intimidenti, suscitatori di curiosità, magari anche attraverso il caso». Come? «Facendo entrare in quegli stessi luoghi della cultura e della bellezza le attività della città. Mischiando in qualche modo le carte: non tanto con attività commerciali quanto con occasioni che permettano appunto di stare assieme, mettendo insieme l’arte con la musica, il teatro, il cinema, la vita di tutti i giorni». L’importante è che «il museo del futuro non sia mai luogo noioso o polveroso, ma luogo amato da tutti».
Ospedali, università
Il concetto di bellezza dell’architetto Piano appare molto più ampio del tradizionale: «Nella nostra cultura umanistica l’idea della bellezza è qualcosa di molto attuale. Luoghi di bellezza sono anche i luoghi del sapere e dell’apprendimento, a cominciare dalle scuole e dalle università. Costruire luoghi per la bellezza non vuol dire solo costruire spazi per una bellezza visibile, tangibile e in qualche modo concreta, come i musei e le sale per concerto, ma anche luoghi destinati ad accogliere tutte le forme di bellezza». Qual è questa bellezza? «È quella bellezza che nasce dalla solidarietà; sono gli ospedali, sono i centri di accoglienza come ha dimostrato l’esperienza recente del Covid-19».
In questo momento lo studio Piano è impegnato nella costruzione di cinque ospedali: uno pediatrico in Italia, a Bologna, un altro appena finito in Uganda per Emergency, tre sperimentali in Grecia (uno di questi tre in un luogo complesso come il confine tra Turchia, Grecia, Bulgaria). Sono i luoghi della scienza e della ricerca: «Costruire, come stiamo facendo per la Columbia University, un laboratorio di neuroscienza a Harlem, nella periferia Nord di New York, tra Broadway e il Martin Luther King Boulevard, non significa solo mettere in piedi un luogo di eccellenza nell’indagine scientifica, dove si indagano i misteri del cervello, ma celebrare un altro tipo di bellezza, la bellezza del sapere e della ricerca».
Uffici pubblici e tribunali
Tra i progetti di Piano c’è il nuovo Palazzo di Giustizia di Parigi a Porte de Clichy, completato nel 2017 e concepito secondo una visione umanistica, moderna, egualitaria della giustizia. Un edificio trasparente e luminoso che guarda verso la città e verso i cittadini, ulteriore simbolo di quella apertura che, secondo Piano, deve toccare anche gli uffici dove la città si amministra. Un tribunale che diventa un luogo di cultura civica: una «città verticale» della giustizia trasformata nel simbolo della rinascita di tutto il quartiere della Porte de Clichy.
Piazze, strade, viali
Anche questi sono luoghi di bellezza, luoghi dove le differenze spariscono, dove alla fine ci si confonde gli uni con gli altri, luoghi che avvicinano e dove si condividono valori. «Quando comincio un progetto in ambiente urbano — confessa Piano — inizio sempre dai vuoti: piazze, strade, cortili, perché in quei luoghi si celebra il rito dell’incontro e della città intesa come civiltà, i luoghi della polis e della politica». La ricchezza di una città era ed è prima di tutto una ricchezza di luoghi di incontro e condivisione dove ancora una volta si celebra lo stare insieme: «Ma le piazze devono essere piazze, devono essere vuote, devono avere la giusta dimensione, nè troppo piccole, nè troppo grandi. Devono essere come stanze all’aperto che accolgono tanta gente, spazi dove succede di tutto, dove le distanze spariscono e le esperienze si confondono, dove la tolleranza comincia a crescere, dove la diversità da problema diventa valore, dove le paure svaniscono nello stare insieme». È questo che deve succedere nelle piazze, nelle strade, lungo i viali: «Piazze, strade e viali sono luoghi di mescolanza funzionale, etnica e di età, dove vivere, lavorare, divertirsi, passeggiare, comprare».
Ponti
Ad agosto verrà inaugurato il nuovo Ponte per Genova progettato da Piano, un’impresa quasi impossibile diventata realtà. «Ho sempre avuto per i ponti una grande passione perché fanno un mestiere molto nobile: uniscono». Spiccano il volo e «sollecitano la fantasia dell’architetto e del costruttore». Se fosse Diderot o d’Alembert e se questa fosse l’Encyclopédie, Piano metterebbe anche i ponti nella categoria dei luoghi pubblici della città, dei luoghi che possono rendere la città accessibile, aperta, pubblica appunto. «Per i ponti perdo la testa proprio perché uniscono, avvicinano in tutti i sensi, fisicamente e idealmente. Un ponte unisce, tiene insieme ma è molto più di questo, non a caso trovi persone che stanno ferme sui ponti solamente a guardare giù; il ponte ha una magia».
A costo di apparire banale Piano dice: «I ponti uniscono esattamente come i muri dividono». Per questo all’architetto sta a cuore questa avventura di Genova: «Una tragedia, quella del 14 agosto 2018, terribile, indimenticabile, in cui sono morte 43 persone, ci sono stati 500 sfollati e si è spaccata in due la città». E aggiunge: «Il ponte è crollato anche nell’immaginario, si è steso un velo di tristezza su tutti noi».
Riforestazione e spazi verdi
«Il verde è per me fondamentale, anche per motivi sentimentali, perché mi fa pensare al mio amico Claudio Abbado, che era un vero piantatore seriale di alberi». Oggi si parla molto di riforestazione delle città, spiega Piano, «ma non si tratta di semplice decoro, le piante depurano l’aria, abbassano la temperatura, aiutano a vivere. In questo Milano ha qualcosa di speciale: Milano è generosa con gli alberi più di altre metropoli». Così, quando alla bellezza della città, aggiungi quella della natura effimera dell’albero «succede un miracolo, tutte le primavere hai un appuntamento con i tigli, gli aceri, i platani e con le loro foglie». Un verde che può essere giardino ma anche campagna: «Nella mia città diffusa vedo la campagna più attrezzata e una città più verde, ricca di parchi e giardini. Un verde che ha il compito di limitare la crescita disordinata della città e di ricucire le periferie».
Progetti
Questo pensiero riporta Renzo Piano indietro di qualche anno: «Quando il presidente Giorgio Napolitano mi ha nominato senatore a vita non ho chiuso occhio per una settimana — ricorda —. Mi domandavo: che cosa posso fare? Alla fine, dagli studi liceali è affiorato alla memoria il giuramento degli amministratori agli ateniesi: prometto di restituirvi Atene migliore di come me l’avete consegnata. Per questa ragione ho pensato di lavorare sulla trasformazione della città, sulla sua parte più fragile che sono le periferie dove vive la stragrande maggioranza della popolazione urbana, luoghi ricchi di umanità, dove si trova l’energia e dove abitano giovani carichi di speranze e di voglia di cambiare, ma anche luoghi spesso condannati da aggettivi denigranti. Renderli luoghi felici e fecondi è il disegno che ho in mente, la nostra sfida urbanistica per i prossimi decenni».
Il rammendo
Il G124 è il gruppo di lavoro costituito da giovani architetti, tutti sotto i 35 anni e retribuiti con lo stipendio del Senatore Piano, che (coordinati da tutor e aiutati da sociologi, antropologi, economisti, critici, urbanisti) hanno il compito di produrre studi di rammendo su una periferia in un anno di lavoro. Nell’idea di Piano, portata avanti dal gruppo G124, e che oggi coinvolge le periferie di Crocetta (Modena), Guizza (Padova), ZEN 2 (Palermo), Rebibbia (Roma), Ex Mattatoio (Sora), il rammendo delle periferie non deve essere mai causale. Spiega: «Si basa su una serie di punti essenziali. Che sono quelli che possono trasformare un quartiere, anche il più infelice, in un lembo vivibile di città. In primo luogo nelle periferie è importante che ci sia un mix: generazionale, economico, etnico e di conseguenza anche funzionale. Secondo: bisogna fecondarle disseminandole di edifici pubblici, servizi, scuole, università, biblioteche, centri civici, attività culturali. Luoghi per la gente dove si celebrino l’incontro e la condivisione. I quartieri devono (terzo punto) essere collegati al centro senza l’obbligo di utilizzare l’auto, potenziando i trasporti pubblici. Quarto: il verde come tessuto connettivo, un filtro tra città e campagna che ponga limite al consumo del suolo».
Riflessioni
«Io non posso scrivere un trattato sulla bellezza — dice Piano —, non ne sarei capace, ma se devo pensare a qualche possibile modello per questa mia città nuova mi piace tornare alle parole di Calvino, alla postfazione delle Città invisibili, di Zygmunt Bauman, del cardinale Martini che, ognuno a suo modo, hanno fatto capire come la bellezza delle città cominci prima ancora dagli uomini che dalle architetture. Quando si parla oggi di periferie che sono diventate spazi vuoti senza qualità, di realtà che non riescono a trasmettere civiltà, penso che in quelle periferie c’è comunque già una bellezza reale e concreta, quella degli uomini e delle donne che ci vivono». Immediato è il riferimento all’amico Ermanno Olmi: «Quando nel 2000 l’avevo portato con me a Ponte Lambro, Ermanno scoprì che nonostante l’alta densità criminale e il degrado del quartiere, per quelli che ci vivevano restava il luogo più bello del mondo». Da questa esperienza nascerà un documentario drammatico che è quasi un pugno nello stomaco, che si conclude, a sottolineare la speranza, con le luci festose dei Navigli, con la periferia come luogo di urbanità e di civiltà («così come la campagna è il luogo dove l’umanità si nutre»).
Raccomandazioni
«Bellezza è una di quelle parole che vanno usate con grande attenzione, come silenzio, una parola che svanisce appena la evochi. Una parola, bellezza, che purtroppo ci è stata rubata dalla società dei consumi che l’ha trasformata in qualcosa di frivolo, di inutile, di superficiale». Quando si parla di periferie urbane bello non è certo l’aggettivo più usato: «Si parla piuttosto di periferie brutte, pericolose, abbandonate, lontane, tristi, perché troppo spesso le periferie sono percepite come deserti affettivi, uno spazio vuoto senza qualità, che non riesce a trasmettere urbanità, intesa nel senso civile e morale, dei comportamenti e del rispetto».
Questa nuova bellezza, è l’opinione di Piano, non ha nulla di cosmetico, non ha nulla di frivolo, non ha nulla di superfluo, ma ha a che fare con la profondità dei desideri dell’uomo: «La grandezza del genere umano sta nelle sue aspirazioni e l’architettura non è solo l’arte di costruire, di rispondere ai bisogni della gente, ma anche quella di esaudire i desideri, i sogni, le aspirazioni delle persone, la loro ansia del sapere e la loro voglia di bellezza. Una bellezza che, oltre a quella dell’arte e della natura, può essere quella della solidarietà e della scienza».
Modelli
Piano conclude citando l’Idiota di Dostoevskij e «una frase bellissima e conosciutissima, per qualcuno forse fin troppo abusata» pronunciata dal principe Myskin: «La bellezza salverà il mondo». Una parola, bellezza, che in russo può fare ancora più paura perché definisce qualcosa di non visibile, qualcosa che per essere bello deve essere anche buono. È inseguendo questa idea che Piano costruisce il GES2 di Mosca, il più grande spazio d’arte contemporanea della Russia, una «fabbrica bianca» (risanata e autosufficiente dal punto di vista energetico con i suoi pannelli solari da 320 megawatt all’anno) collocata tra il Cremlino e la Cattedrale di San Basilio, un hub delle idee che si aprirà nella primavera del 2021.
Non siamo in periferia, certo, ma con questo progetto l’architetto ribadisce quanto l’opera di ricucitura (così come l’attenzione alla sostenibilità e all’utilizzo di forme alternative di energia) debba essere essenziale anche quando riguarda il «cuore» di una città. «Ancora una volta è un luogo fatto per la gente, ancora una volta un luogo dove si potrà stare insieme e condividere emozioni — dice —. C’è tutto quello che un architetto può desiderare: un luogo carico di memoria, uno spazio industriale dismesso che è una fabbrica di luce e la possibilità di costruire un luogo per la bellezza». Un luogo a cui è affidato «un compito importante in una realtà complessa e articolata come quella di Mosca, ma un modello che è assolutamente valido anche per i nostri centri storici e per le nostre periferie».
Conclusioni
«L’Italia ha bisogno di un grande rammendo del territorio, sono tanti i problemi — conclude Piano —: c’è un dissesto idrogeologico, c’è da riforestare il Paese, c’è da renderlo sismicamente più sicuro, c’è da occuparci delle periferie e c’è, naturalmente, da ricucirlo con il trasporto pubblico. Ferrovie, strade, ponti. Questa è l’idea del rammendo, tante gocce possono diventare un mare».
Piano torna ancora Dostoevskij con il suo principe Myskin: se costruisci luoghi per la bellezza, forse non salverai il mondo, ma salverai molta gente e farai in modo che la gente sia migliore. Come saperlo? «Alle persone che passano, che attraversano questi luoghi di bellezza, si accende sempre una luce negli occhi, la luce dell’intelligenza, della consapevolezza, della curiosità, del ragionare con la propria testa, del farsi delle domande e del trovare le risposte, una luce che cogli subito».