Quel giorno infatti si consumò l’amara vendetta degli ultrà berlusconiani che non avevano mai creduto, sino all’ultimo, alle promesse del cosiddetto partito del pareggio o del rinvio. A Palazzo Chigi c’era il governo consociativo di Enrico Letta che aveva due solidi punti di riferimento dentro il magico mondo di B.: lo Zio Gianni, Gran Visir di rito romano e andreottiano, e il potente Angelino Alfano, già delfino senza quid e capodelegazione di Forza Italia nell’esecutivo. Secondo la vulgata informata dei falchi, Zio e Nipote più Angelino, con la benedizione solenne del Colle di Giorgio Napolitano, a suo tempo avrebbero fatto balenare al Caro Leader l’ipotesi della pacificazione travestita da una decisione favorevole della Cassazione: annullamento con rinvio. Cioè rispedire il processo Mediaset in Appello e imboccare quindi la strada della solita prescrizione.
C’erano anche delle subordinate. Tutto fuorché la temuta sentenza di condanna. Così parlò, per esempio, Maurizio Gasparri il 27 luglio, durante la Grande Attesa: “Cosa faremo se martedì condannano Silvio Berlusconi? L’ipotesi che si tenga l’udienza è al secondo posto. Al primo posto c’è la notizia, ossia che ci sarà il rinvio”.
Ecco, dunque, quali erano il clima e il contesto in cui piombò la Sentenza letta dal giudice Antonio Esposito in appena sessanta secondi. Pacificazione, annullamento con rinvio, prescrizione. L’illusione di un salvacondotto ad personam per tutelare l’inciucio di Pd e FI al governo. Oggi i media berlusconiani, vecchi e nuovi, gridano al complotto guidato da Napolitano contro B.: in realtà la gran parte della classe politica della Seconda Repubblica sperò nella salvezza del Caro Leader azzurro.
Non solo.
All’indomani della condanna, iniziò il secondo tempo della trattativa. Stavolta per la grazia a Berlusconi. Ieri, sempre sul Giornale, è stato pubblicato un altro clamoroso dettaglio di quella fase. Clamoroso, se vero, ovviamente. A raccontarlo l’ex senatore Augusto Minzolini, retroscenista di fama: subito dopo la pronuncia della Suprema Corte, Napolitano sarebbe addirittura andato dal professore Franco Coppi, uno dei difensori di B., nel suo studio legale ai Parioli, a Roma. Una discussione, chiamiamola così, per verificare le condizioni della grazia al leader azzoppato. Ma il riservatissimo colloquio, secondo il Giornale, non andò bene. Coppi manifestò subito il no del Condannato a un provvedimento di clemenza collegato al ritiro dalla politica.
Ieri il Fatto ha interpellato fonti vicine al presidente emerito. Fanno sapere di non aver nulla da dire sulla “grancassa” di questi giorni, alimentata anche da quel Sallusti che venne graziato proprio da Napolitano per una condanna per diffamazione. Il professore Coppi, invece, non ha risposto a una richiesta di chiarimenti, ma un quarto d’ora dopo le nostre chiamate ha mandato un comunicato alle agenzie di stampa: “Tutto falso”.
In ogni caso, a ridosso del Ferragosto del 2013, il Quirinale fece una lunga nota, tecnicamente una “dichiarazione”, per puntellare il governo Letta e affrontare la questione Berlusconi. Per decidere su un’eventuale grazia, il centrodestra avrebbe dovuto innanzitutto accettare e riconoscere la sentenza. A quel punto nel percorso per arrivare a un gesto di clemenza – riferirono all’epoca gli esegeti del Colle – il Condannato avrebbe dovuto fare un passo indietro, da leader a padre nobile. La trattativa si trascinò fino all’autunno, quando in vista del voto sulla decadenza di Berlusconi al Senato, si parlò di grazia ad personam. Il Fatto anticipò la notizia il 22 ottobre. Il Colle la smentì come “panzana assurda”. Un anno dopo, Alfano consegnò a Bruno Vespa una versione opposta a quella del Quirinale: “Napolitano accettò la proposta di una grazia motu proprio per B. a patto che lui si dimettesse dal Senato”. Alfano tornò a Palazzo Grazioli “entusiasta”, ma Niccolò Ghedini lo gelò con un no.