l’intervista
Il filosofo Sergio Givone e l‘invito dell’arcivescovo «Bisogna rimettersi al passo con un ritmo profondo»
Edoardo Semmola
Sergio Givone ha la valigia pronta. E un biglietto di nave in mano. Sempre lo stesso di ogni estate: direzione «la mia cara isoletta greca», la sua seconda casa. Ma guai a dirgli che sta andando a «riposare». Si arrabbierebbe. «Noi intendiamo il riposo in un senso banale se non negativo – premette il filosofo e docente di estetica fiorentino – Lo leghiamo alle vacanze. E questo è appunto tempo di vacanze. Ma “vacanza” etimologicamente vuol dire stagione del “vuoto”. Cosa sarà mai questo riposo in cui precipitiamo nel vuoto? Se andiamo a prendere la parola latina, otium , vediamo che l’ozio per i romani era un’altra cosa. Siamo noi che gli abbiamo dato questa accezione negativa. Al punto da farlo diventare il padre dei vizi».
Era qui che la volevamo portare, professore. A un nuovo senso della parola «riposo». Che il cardinale Giuseppe Betori ha più volte usato nella sua omelia.
«Ho ascoltato dal vivo le parole del cardinale e il riposo di cui parla lui non è il padre di tutti i vizi ma il padre di tutte le virtù. Per i latini la contrapposizione era tra otium e ne gotium , inteso come le attività quotidiane, l’occuparci di mille cose, il lavoro. Ma il senso negativo sta appunto nel neg-ozio, al contrario di come lo intendiamo noi. Come diceva Pascal: il dramma dell’uomo è che non sa più oziare, nel senso di riappropriarsi di se stesso, che è la cosa più importante. Da questo punto di vista l’ozio non è l’alienarsi, non è il perdersi, ma il ritrovarsi. I latini vedevano nell’ozio il momento formativo più importante dell’uomo. I greci usavano la parola “scholé”, quindi scuola, formazione. Che per loro significa diventare “cittadini” e avviene solo quando impariamo a oziare. La scuola era ozio».
Che paradosso…
«Ma io dico: recuperiamolo questo paradosso! Aristotele, che è il teorico dell’ozio per eccellenza, diceva proprio quanto fosse necessario rimettersi al passo col ritmo profondo delle cose. Noi invece le cose ce le facciamo scappare, le rincorriamo sempre col fiatone».
In questa fase storica di Firenze però, la parola «riposo» fa rima con «anti-movida».
«Fanno rima sì… Purtroppo la movida viene intesa semplicemente come una roba da vecchi che se la prendono con i giovani. Ma se invece fosse una cosa buona anche per i giovani, se imparassero a riscoprire l’ozio anche loro… Ecco che allora cambierebbe tutto. Pensiamo all’anti-movida come a un progetto di serata».
Paradosso numero due. Però finora abbiamo parlato del riposo per l’essere umano. E quello per la città? Se intendessimo la città come una persona, con il suo bisogno di riposo?
«Perché no: questa idea di città come essere umano sta salda nel cuore dell’urbanistica rinascimentale. Leonardo ha scritto pagine bellissime su questo. E anche l’architetto Filarete immaginava la città come un essere umano al suo meglio. Come un organismo vivente. Non come un ammasso di pietre rigide che delimitano spazi e creano prigionia. Al contrario: la città deve respirare. E per respirare non deve farsi prendere dall’affanno ma seguire un suo ritmo naturale. Che è fatto di movimento ma anche di riposo. In una giusta misura».
Stessa parola usata anche da Betori: giusta misura.
«Senza il senso della misura creiamo il caos. Per questo dico che non ce l’ho con la movida in quanto tale ma con la movida che ha perso il senso della misura».
Poi c’è il tema del turismo «slow» che si innesta in questo ragionamento.
«Perché dobbiamo pensare sempre al turismo come un fatto positivo solo sul piano economico e negativo per tutto il resto? Invece “turismo” vuol dire “educare alla città”. Far godere agli altri gli spazi e i modelli di vita che questa città ha da proporre. Di un turista che viene qui solo per ficcarsi nei negozi di via Tornabuoni dopo aver buttato un occhio volante al David di Michelangelo, non so cosa farmene. Porta soldi? Sì, è vero, ma alla fine i conti non tornano: è un turismo che alla lunga fa passare la voglia di venire a Firenze».
Betori parlando di «riposo, bellezza, contemplazione e pace» cita a lungo La Pira.
«Giorgio La Pira usava quelle categorie di pensiero non tanto in riferimento al “tempo” della vita in città ma rispetto ai “luoghi”, agli spazi. Diceva che c’è un luogo per amare, la famiglia. Uno per guarire, e questo è l’ospedale. Un luogo per formarsi e crescere, la scuola. È un pensiero bello e profondo l’idea che la città sia un insieme di luoghi deputati a scopi diversi ma nel quale ciascuno deve essere valorizzato e rispettato. Abbiamo visto cosa è successo per aver sminuito il valore dei luoghi di cura: arriva il covid e ci trova con il sedere per terra. Perché non abbiamo saputo rispettare l’armonia dei luoghi».
Betori se la prende anche con gli «eccessi» del passato. In cosa abbiamo ecceduto secondo lei?
«In tutto, temo. C’è stata una tendenza a forzare il ritmo delle cose. Che è quella che ha portato l’ozio a diventare il padre dei vizi. Abbiamo forzato anche il movimento, che è la cosa più naturale dell’uomo. E tutto è degenerato».
Il cardinale parlando di questi luoghi e principi si riferisce a chiesa, lavoro, famiglia, scuola, salute. Lei vuole aggiungerne altri?
«Sì, il cielo. Quell’apertura che c’è sempre in fondo a una strada o sopra una piazza. La bellezza di Firenze esiste grazie a quel luogo dei luoghi che è il cielo».