L’emergenza sociale, economica, politica nonché sanitaria che si è manifestata in questo momento storico è senza dubbio la concretizzazione di un dramma che l’Occidente, e più specificamente l’Europa, porta con sé come macchia sin dal momento della sua nascita, rimasta latente e nell’evoluzione del pensiero ignorata o mal interpretata. Tra ordinanze e contro ordinanze, decreti e contro decreti, cure e contro cure, siamo ogni giorno tempestati di contenuti e veniamo chiamati a schierarci con questa o con quest’altra fazione, a connotarci in qualche maniera. Ora, il punto non è “sporcarsi le mani” o meno, ma capire che se si prende una posizione di contenuto e la si erge ad argomentazione “ab-soluta”, “vera”, si elucubra soltanto su un contenuto. Questo è il dramma occidentale, accentuatosi sempre di più con la democratizzazione dei contenuti e dell’informazione: che si pensa a partire da e a finire su l’ente, su un qualcosa di storicamente determinato, di finito.
Hegel scrive: «Ogni finito ha questo di proprio: che sopprime sé medesimo». La finitezza non può essere parametro o condizione per capire la Realtà. Ogni volta che si pensa di sapere a partire da un sapere finito esso troverà sempre contraddizione. La dialettica non è da intendere come procedimento statico e ferreo, ma come processualità, come un calvario che porta ad una continua risurrezione. La suggestione, dunque, è quella di chiedersi se davvero riflettere, soprattutto filosoficamente, sull’ente, su contenuti storici, riesca a portarci ad una visione globale. La questione, a parere di chi scrive, è di metodo. Chiariamo: riflettere sui contenuti, essenzialmente e intrinsecamente duali, significa riflettere immediatamente sulla politica, sulla medicina, sull’economia, magari sostenuti da filosofie già connotate storicamente, nate magari dalla volontà di soverchiare una categoria sociale, e che dunque danno la loro attenzione im-mediata all’ente, ad un fatto storico, e non all’essere, direbbe il tanto denigrato – probabilmente perché non studiato ed etichettato politicamente per sgombrare più facilmente il campo filosofico – Heidegger.
La scelta del titolo vuole richiamare l’attenzione su un modo originario di Pensare tout court, e non di pensare su questo o su quello. Il fondamento della coscienza dell’epoca in cui viviamo è la morte della Verità; ma va osservato che è stata essa stessa a permettere il suo omicidio, fin dal suo concepimento. La Verità, che voleva salvare dai sofismi relativisti, si è rivelata inadeguata. «Mi sa che mi troverò sempre a mio agio e d’accordo con una minoranza» dice Nanni Moretti. Ma perché la filosofia dovrebbe essere il bene minoritario? Perché il male non dovrebbe essere anch’esso filosofia, per altro vincente? È evidente che viviamo in un’epoca in cui il pensiero calcolante sia il pensiero vincente. Perché questo non dovrebbe essere una filosofia? E soprattutto quale sapere lo legittima?
Oggi più che mai, in preda ad un relativismo disorientante, come all’epoca dei sofisti, e ad una plusvalenza inflazionistica delle opinioni, si focalizza l’attenzione sulla Legge, quella Verità appunto, che la Filosofia ha chiamato in antichità episteme, “ciò che sta sopra tutto” e che è inoltrepassabile. Inoltrepassabile? Ma se il Novecento è il secolo in cui, per tutto il suo corso, è risuonata l’eco del tuono nietzscheano secondo cui Dio sarebbe morto? Quel Dio è proprio quella Legge “inoltrepassabile” che a quanto pare è stata oltrepassata. Quindi il divieto di oltrepassarla non era Reale (Wirklich) ma etico-morale. Tutto ciò che è politico è situato storicamente. Se vogliamo capire il nostro tempo dobbiamo uscire dalla logica storica e pensare in maniera trasversale, trascendentale. Se leggiamo il nostro tempo con categorie prettamente di contenuto, ad esempio quelli della dualità oppositiva proletario-borghese, lavoratore statale-imprenditore, conservatore-progressista significa che partiamo dal presupposto: filosofia = politica (sia pure nel senso greco di polis; anacronismo a nostro parere). E dunque, se filosofia = polis, allora filosofia è uguale anche a “Bene”.
Le categorie proletariato-borghesia, studenti liberi contro professori di cattedra universitaria, e tutte queste divisioni sociali dicotomiche riportano al contenuto, facendoci leggere la realtà attraverso enti e non attraverso l’incondizionatezza e la trasparenza dell’essere, della filosofia.
In maniera edipica si scoprirebbe che la tecnica è figlia di quell’apertura illimitata ad ogni verità, al relativismo, al nichilismo e, forse, a monte, all’istituzione di quella Verità che era già oltrepassabile sin dal momento della sua nascita. Dunque la filosofia degli ultimi duecento anni sarebbe quel fuoco che sta sotto la cenere, che è la tecnica. La tecnica sta portando al tramonto l’Occidente (dal latino occasum, “caduta”, in tedesco Verfallen), ma vedere in essa il male assoluto significa anche vedere il male nella possibilità di una salvezza. I vaccini, unica salvezza anelata in questo periodo di dramma globale, provengono, ad esempio, proprio da un sapere tecnico. Dunque il modo per essere geretten, “salvati”, starebbe nel pensiero tecnico. L’ultimo lascito di Martin Heidegger recita: «Nur noch ein Gott kann uns retten», “ormai solo un Dio ci può salvare”. Quel dio che la filosofia dell’ultimo secolo ha ucciso, per istituire un pantheon, non esiste più, se non sotto forma di Tecnica, ovvero quella volontà di incremento indefinito della capacità (potenza!) di realizzare scopi. In questo non v’è politica né economia. Anzi, economia e politica sono diventati mezzi di ciò che prima era mezzo e che ora, relativizzando ogni verità – a causa del fatto che la Verità della tradizione era inoltrepassabile solo de iure e non de facto –, è diventato Soggetto.
Ritornare dunque a pensare attraverso la categoria di Essere, categoria non connotata temporalmente che ci consente di ripensare radicalmente il nostro tempo. Partendo da questioni politiche per ricavarne una prassi, soprattutto se accompagnati dalla volontà di trarre una prassi, torneremmo sui passi errati (e dunque ad essere erranti) di quella filosofia che non è un “Bene” contro un “Male”, ma colpevole e violenta. E questo perché la volontà è volere che le cose stiano in un modo diverso da come sono. Significa non accettare l’essere degli essenti, significa manipolarli, modificarli, credere che portarli nel niente facendoli divenire sia davvero l’originaria evidenza. Questa è la violenza della Tecnica che la filosofia ha legittimato nel suo discorso politicamente connotato. Ma che le cose divengano è appunto una credenza, una fede. Usando una frase cara ad Emanuele Severino (illuminante a tal proposito è “L’identità del Destino. Lezioni veneziane”, Rizzoli, Milano, 2009), se la guerra è la madre di tutte le cose, pensare la cosa come diveniente (cioè qualcosa di contingente che è fin tanto che è) è la madre di tutte le guerre. Imparare ad accettare gli enti per come essi sono, conferirgli la loro dignità, ebbene qui sì particolare, concreta storica, allora potremmo riscoprire la verità del discorso filosofico.
La loro situatezza va accettata come origine e fine in se stessa, come qualcosa che può solo essere, e non come sostrato da cui partire volendo farlo divenir altro da come esso è. La volontà di modificare può portare, ad esempio, a situazioni storiche come il caso della Vandea sul finire del Settecento: la volontà di far divenire altro politicamente del razionalismo giacobino “sguazza” nella violenza. Filosofia, infatti, non è il banale “amore per la conoscenza” ma quel “sa-phés” (di “sophia”) deriva da “phos”, “luce”: Filosofia è quindi un gettare luce e togliere dalle tenebre, dunque una questione metodologica, che non parte dai contenuti, men che meno se essi sono politicamente connotati. La luce non ha colore determinato, per questo per vedere i colori particolari dell’ente dobbiamo prima renderci coscienti della luce dell’Essere, imparare a ri-conoscerla, poiché è la condizione di visibilità di tutte le colorazioni.