L’«Ulisse» di Joyce parla di nuovo italiano

Letteratura
L’«Ulisse» di Joyce parla di nuovo italiano P. IV E così siamo alla quinta. Ma non è una sonata _ _ («ta-ta-ta-tàaaaa!») né una marcia sul cambio dell’automobile. È soltanto il numero – l’ultimo a cui siamo arrivati – delle versioni in italiano dell’ Ulisse di James Joyce. Ne è autore Mario Biondi, romanziere in proprio e traduttore di lungo corso, ora in forza alla editrice La nave di Teseo; e, per quanto bizzarri o pretestuosi possano apparire i richiami di cui sopra, le allusioni alla “quinta” possono servirci per un paio di precisazioni. Primo: l’Ulisse di Joyce, come e forse più di qualsiasi altro testo letterario, dev’essere preso come uno spartito – al pari, appunto, della Quinta di Beethoven – e il traduttore va inteso come un direttore d’orchestra. Un interprete. Secondo: se la quinta in un’automobile è, come si dice, la marcia che permette di “viaggiare in riposo”, questa è una versione dell’Ulisse che – al pari, bisogna dirlo, di un paio d’altre, ma forse con maggiore efficacia – offre al lettore la possibilità di navigare senza troppi sussulti. È infatti dotata di note – sul modello, seppure ridotto, ma per la prima volta a piè di pagina, della Ulysses: Annotated Students’ Edition della Penguin -, imprescindibili in un’opera come questa che un qualsiasi studente non troppo brillante collocherebbe d’acchito accanto alla Divina Commedia per la oscurità dei riferimenti; e non troppo lontano – infarcito com’è di giochi di parole, allusioni esoteriche e crittogrammi subliminali – non troppo lontano, dicevo, dal tavolino da tè su cui posa, in salotto, «La settimana enigmistica». Pubblicato nel 1922 e considerato intraducibile per decenni, gli eredi di Joyce avrebbero voluto che a volgerlo in italiano, fosse «un grande poeta, ma a quanto risulta «i vari Montale, Pavese e Vittorini rifuggirono sempre l’offerta come la peste». Fu finalmente tradotto da Giulio De Angelis (Medusa,1960 e Oscar Mondadori, 1973); rivisto, nel 1988, sul testo critico di Walter Gabler (1984); e ripubblicato nei Meridiani (1989) e di nuovo negli Oscar, questa volta in due comodi volumi. Fu poi tradotto da Bona Flecchia (Shakespeare and Company, 1995) in un’edizione finita fuori legge e fuori commercio per violazione dei diritti d’autore; e, in anni recenti, prima da Enrico Terrinoni con revisione di Carlo Bigazzi (Newton Compton, 2012) e poi da Gianni Celati (Einaudi, 2013). Con l’eccezione del volume curato da Bona Flecchia che, per la sua rarità, ormai costa come un “Gronchi rosa” (600/1.200 euro), il prezzo assai contenuto delle succitate edizioni in brossura fresata (cioè, non cucite sul dorso) sta a indicare l’intenzione degli editori di esitare l’opera anche nei supermercati e all’edicola della stazione come un romanzo usa-e-getta destinato al lettore comune. Ma l’Ulisse non è un romanzo per tutti. È un’epopea della quotidianità, con protagonista un uomo qualunque, che però – e qui sta il busillis, di cui abbiamo la prova – non si sognerebbe mai di acquistare o di leggere un libro simile. Troppo difficile. Insomma l’Ulisse è certamente un capolavoro della letteratura e un gioiello di poesia e di abilità narrativa, come hanno detto e scritto non solo tanti professori, ma gente del mestiere come Vladimir Nabokov e Anthony Burgess. Ma è anche «un’opera oscura ed elitaria», come ebbe a definirla con disprezzo Karl Radek al Congresso degli scrittori sovietici del 1934; ed è stata scritta – aggiungiamo noi – da una sorta di Icaro della letteratura, il cui scopo fu sempre di superare e stupire i colleghi con la propria spericolata bravura. I libri, tutti i libri – per dirla alla grossa -, sono di due categorie. Quelli che si leggono e quelli che si studiano. Tra i primi ciascuno può mettere quel che gli pare (perché gli piace). Tra quelli che, invece, bisogna leggere e rileggere – cioè, studiare perché aiutano a crescere, ci sono certi classici che, per digerirli, ci vuole l’aiuto di un esperto. Infine, fuori categoria, troviamo le opere cosiddette “sperimentali”: quelle che bisogna scervellarsi già alla prima edizione, quando sono ancora criticamente vergini, e che non di rado causano inguaribili allergie per prosa e poesia messe insieme. L ‘Ulisse è l’una e l’altra cosa. Un classico e un’opera di avanguardia, e soprattutto un best-seller. Un libro, dice qualcuno, più citato che letto, che al pari delle opere di Shakespeare ha dato luogo a una bibliografia così vasta che non basterebbe una sola vita per leggerla tutta. Ma è e rimane soprattutto uno scrittore per gli scrittori. Un seminario, cioè un semenzaio, di possibilità espressive. E, per i traduttori, una sorta di ottomila himalaiano con cui cimentarsi. Alla vigilia dell’anniversario del giorno, 16 giugno 1904 (“Bloomsday”), in cui è ambientato l’Ulisse, e proprio a proposito della sua versione in non saprei quante lingue, una considerazione conclusiva è necessaria, ed è questa. Che le traduzioni invecchiano e viene un momento in cui non corrispondono più alla lingua parlata da chi legge. Ma è una regola empirica a cui fa eccezione l’Ulisse. Un mondo esploso, fatto di parole tenute insieme non tanto dalla sintassi quanto dalle associazioni di idee che queste hanno scatenato nella mente di chi scrive (e di rimbalzo, dio sa in quale direzione, nella mente di chi legge). Ragion per cui il compito di chi affronta l’Ulisse non è di aggiornare la lingua di arrivo e neppure di tradurre “a specchio” le frasi, bensì di mantenere vive e vibranti le risonanze affettive (ovvero le connotazioni, come le chiamano i linguisti) in un tessuto verbale che si va liquefacendo in un magma di suoni virtuali. Joyce, a dispetto della maniacale precisione sui dettagli – eredità naturalista di quando si considerava un devoto allievo di Ibsen -, non è uno scrittore visivo – visuale – bensì musicale. Sonoro. E per tradurlo, chi ci ha provato, ha dovuto affidarsi soprattutto all’orecchio più che al dizionario. Provando e riprovando sul diapason. E tutte le versioni, a cominciare dall’ultima – la quinta di Mario Biondi -, sono il risultato di anni di lavoro. Per il quale, questi riscrittori (leggi: scrittori), se fossero stati pagati a ore, invece che a forfait come credo, avrebbero fatto fallire le rispettive case editrici. A salvare gli uni e le altre, sono state le Muse.
ULISSE James Joyce Traduzione e note di Mario Biondi La nave di Teseo, Milano, pagg. 1.068, € 25
Il Sole 24 Ore – Domenica
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