La notte di Walter Tobagi

Milano, quarant’anni fa: le Brigate rosse alzano il tiro Uccidono il giornalista del “Corriere della sera” Per i terroristi era diventato il simbolo della libertà di stampa
di Ezio Mauro
Quella notte pioveva sulla maledizione di Milano. Ma quando Walter Tobagi uscì di casa, dopo essersi fermato sulla soglia controllando il cielo, aveva quasi smesso. Così non aprì l’ombrello nero, mentre imboccava via Solaino per raggiungere poco più avanti il garage “Del Parco” dove la sera prima aveva posteggiato la sua “Mini”. E lì lo aspettavano. Lui sapeva di essere in pericolo, e quando un anno prima avevano trovato il suo nome in mezzo a 36 schede di obiettivi da colpire in una borsa dei Reparti Comunisti d’Attacco, si era confidato in segreto nel diario: «Cos’è la paura? Camminare per strada e sobbalzare a ogni macchina che ti passa vicino, guidare l’automobile e spaventarsi a ogni moto che ti si affianca. Questa paura mi accompagna da più di un anno, da quando uccisero Casalegno e mi toccò scrivere di brigatisti. Se toccasse a me, la cosa che mi spiacerebbe di più è di non aver trovato il tempo di spiegare a Luca e Benedetta il senso di questa mia vita di affanni». Quel mercoledì 28 maggio 1980 Luca che ha 7 anni è a scuola, Benedetta che ne ha 3 è a casa con Stella, la mamma. Arriveranno tra poco, guidate dagli spari e dall’angoscia, correndo, e vedranno Walter nel suo sangue e nell’acqua sporca delle pozzanghere, a testa in giù tra il marciapiede e l’asfalto, con l’ombrello chiuso a fianco.
Uccidere un uomo in democrazia, nel cuore dell’Europa civile, con un’azione di guerra in tempo di pace, è una cosa semplice se si supera l’orrore di stroncare una vita, a 33 anni. Bisogna nascondersi dietro la siepe spelacchiata della “Trattoria dei Gemelli”, mimetizzarsi tra i passanti con un berretto di lana blu da calare sul volto quando si punta la calibro 9 corto, tenere con l’altra mano un sacchetto di plastica per raccogliere i bossoli dei sei colpi, garantirsi la via di fuga con una Peugeot 204 grigia che aspetta quasi all’angolo con via Valparaiso, col motore acceso. Però prima ci sono quei pochi minuti in cui l’assassino deve camminare dietro un uomo libero ma già condannato, deve correre quando lui cambia all’improvviso marciapiede e attraversa la strada, e infine deve sparare, cinque volte, mirando alla schiena, alla spalla destra, a un piede, al fianco sinistro, al torace, prima dell’ultimo colpo alla testa, per la sicurezza di ammazzare. Quei sei proiettili corazzati forano la giacca blu, sbalzano la penna stilografica fuori dal taschino: come per ricordare a tutti che Walter è un giornalista, un grande inviato del Corriere .
Lo sapevano bene i suoi killer, borghesi giovanissimi cresciuti in famiglie legate ad ambienti editoriali, contigui ai giornali. Addirittura i genitori della fidanzata di Marco Barbone, il Capo del commando che sparò il colpo di grazia, erano amici di Tobagi. Quei ragazzi volevano promuoversi con azioni sul campo per scalare le Brigate Rosse,e avevano fondato la Brigata XXVIII Marzo per ricordare con quella data i quattro brigatisti uccisi due mesi prima dagli uomini del generale Dalla Chiesa nel covo di via Fracchia, a Genova. Proprio l’improvvisazione e il dilettantismo avevano reso il gruppo permeabile (anche se capace di uccidere), tanto che un’informativa dei carabinieri su un possibile attentato a Tobagi era stata scritta inutilmente e incredibilmente sei mesi prima dell’agguato. E proprio l’evidente conoscenza del mondo dei giornali consentirà di individuare i killer e di arrestarli.
Venti giorni prima di uccidere Tobagi, infatti, avevano colpito un altro reporter milanese, Guido Passalacqua di Repubblica , un giornalista giovane ma esperto, che indagava con rigore il mondo dell’eversione armata. Questa volta avevano suonato il campanello di casa, dicendo che erano poliziotti. Quando Guido ha aperto la porta sono entrati in tre con le pistole spianate, lo hanno legato a terra, e gli hanno scaricato due colpi col silenziatore in una gamba. Poi lo spray sul muro, «Onore ai compagni di Genova», e la fuga giù per le scale, dopo aver staccato i fili del telefono. Tobagi aveva capito: «Nel mirino ora entrano i riformisti, quelli che cercano di comprendere ».
In realtà eravamo nel pieno dell’offensiva armata contro i giornalisti. Nata all’inizio di giugno del terribile ’77, quando in due giorni vengono “gambizzati” tre direttori, Indro Montanelli del Giornale , Emilio Rossi del TG1 , Vittorio Bruno del Secolo XIX . Bruno lo aspettano di sera a Genova, quando esce dalla redazione per tornare a casa, e un ragazzo gli spara senza dire una parola. Rossi lo vanno a prendere in via Teulada, il centro di produzione Rai di Roma, dove si sta avvicinando a piedi mentre legge un libro, appena sceso dall’autobus. Sono un uomo e una donna. Rossi cade colpito al femore, al ginocchio e alla tibia, a due passi dal suo giornale. «Vigliacchi » è invece l’urlo di Montanelli mentre prova a rialzarsi da terra aggrappandosi a un’inferriata nel muro in via Manin a Milano, con quattro proiettili nelle gambe, sparati contro il più noto tra i giornalisti italiani.
Spareranno ancora ad Antonio Garzotto, per 15 anni cronista giudiziario del Gazzettino , mentre ad Abano sta andando a prendere la macchina in garage alle 8 del mattino, il 7 luglio ’77. Mezzo chilometro a piedi, leggendo il giornale, finché si spalanca la porta di un furgone, scende un giovane e spara cinque colpi calibro 7,65 mirando alle gambe. Due mesi dopo altre cinque pallottole contro Nino Ferrero, un ex carabiniere comunista, che si occupa di spettacoli sulle pagine torinesi dell’ Unità . Prima degli spari Ferrero alza una mano cercando di fermarli, denuncia il suo stupore: «Che fate, sono un compagno». Nel volantino lo definiranno «servo del Pci». L’ultimo giornalista colpito, il 24 aprile del ’79, è Franco Piccinelli, direttore della redazione Rai di Torino, ferito da sei colpi di pistola in via Santa Giulia, dov’era arrivato subito dopo la fine del Giornale Radio di mezzogiorno.
E a Torino, il 16 novembre del ’77, va in scena il primo delitto organizzato contro un giornalista. È Carlo Casalegno, vicedirettore della Stampa , partigiano e uomo del Partito d’Azione come molti intellettuali piemontesi che scriveranno sul giornale torinese, da Galante Garrone a Mila, a Jemolo, a Bobbio, a Gorresio. Uomo d’ordine liberale, chiede che lo Stato tuteli la democrazia e la libera convivenza contro l’eversione, ma senza ricorrere a leggi speciali. Sa di essere in pericolo, va e viene dal giornale insieme con il direttore Arrigo Levi, che è scortato. Ma quel giorno ha dovuto cambiare programma, e l’autista del giornale lo lascia solo davanti a casa in corso Re Umberto 54, appena finita la riunione di redazione, all’ora di pranzo. Ha una cartella coi suoi libri nella mano sinistra, le chiavi nella destra, ma quando la porta sta per rinchiudersi la spalanca Raffaele Fiore, con la stessa mano che sparerà nel massacro di via Fani uccidendo la scorta di Aldo Moro: adesso entra nel palazzo insieme con un altro brigatista, Piero Panciarelli, mentre Patrizio Peci è di copertura all’esterno. Lo chiamano, non lo conoscono nemmeno anche se hanno deciso di ucciderlo, Casalegno si volta e gli sparano quattro colpi con le Nagant alla testa, centrandolo al volto e sul collo. Morirà dopo 13 giorni di agonia alle Molinette, con il figlio Andrea, di Lotta Continua, che innesca una discussione in tutto il movimento, dicendo che «non si spara a un uomo per le sue idee».
Perché sono le idee e le opinioni espresse negli editoriali e nelle cronache che scatenano l’offensiva terroristica contro i giornali. Tobagi aveva appena scritto che i brigatisti «non sono samurai invincibili», Casalegno aveva chiesto la chiusura dei covi e la fine dell’immunità dei guerriglieri urbani fiancheggiatori, per controllare il fanatismo che è «il peggior male italiano», ma senza ricorrere alla violenza «che distrugge la democrazia senza eliminare il terrorismo, anzi gli regala militanti e giustificazioni».
Il narcisismo nichilista dei brigatisti li rende ossessionati dai giornali. Le “norme di sicurezza” dettate da Moretti spiegano che così come si deve portare sempre l’arma addosso, l’acquisto dei quotidiani non va mai fatto nel quartiere dove si abita; il primo comunicato del sequestro del magistrato Mario Sossi è lasciato in una cabina del telefono avvolto nella pagina 23 della Stampa; nel covo torinese di via Foligno la polizia trova un archivio interamente composto da ritagli di quotidiani. Poi gli attacchi.
Un comunicato dell’aprile ’72 spiega che «i giornali confondono la classe operaia contrabbandando la crescente fascistizzazione dello Stato come esigenza dell’ordine pubblico, e preparano il terreno per un attacco finale». Un altro comunicato dell’aprile 1975 denuncia la «guerra psicologica di certo giornalismo, che organizza il discredito delle organizzazioni rivoluzionarie con l’obiettivo di condizionare l’opinione del semiproletariato e delle aristocrazie operaie», e lancia la prima minaccia: «a questi seminatori di odio e sospetti diamo un ultimo consiglio: riflettano prima di stendere l’ultimo pezzo. Perché alla loro guerra risponderemo con la rappresaglia ». Il Capo delle BR, Mario Moretti, esplicita la strategia: «La simbologia delle nostre azioni armate è affilata e precisa come un intervento chirurgico. Sì, colpiamo i simboli della stampa di regime. È criticabile come ogni altra azione armata, ma non più ingiustificata di altre. Ogni nostra azione è simbolica, agisce sul piano dell’immaginario e della rappresentazione politica». Sparano a un simbolo, dunque.
Ma la morte non è una metafora, e le P38 dietro quel feticcio emblematico lasciano a terra uomini in carne e ossa, con una storia e una famiglia, colpiti per il loro lavoro vissuto come una passione e un dovere, per lo sforzo di capire e far capire, per le loro idee: come Walter Tobagi quarant’anni fa.
www.repubblica.it