Se è vero che il fine esibito – e probabilmente, almeno in parte, sinceramente perseguito – dei pamphlets razzisti di Céline e della sua militanza collaborazionista fu quello, nobilmente pacifista, di evitare a ogni costo una nuova carneficina («Volevo impedire il Macello!») di soldati semplici, orchestrata da quei poteri economici e politici che le leggende nere del più becero nazionalismo identificavano con la finanza ebraica; e se è vero che il ’14, con i suoi massacri, e il ’17, con le sue fucilazioni, tornano ossessivamente anche nei romanzi sulla seconda guerra mondiale, è anche vero che dell’abiezione senza limiti dell’uomo Céline non è più lecito dubitare dopo la requisitoria di Annick Duraffour e Pierre-André Taguieff in Céline, la race, le Juif. Légende littéraire et vérité historique (Fayard, Paris 2017): grosso tomo quanto mai sgradevole alla lettura, per l’ostentata indifferenza alle qualità estetiche e alla complessità della parola letteraria, ma d’impianto probatorio documentatissimo e schiacciante – sarebbe tempo, anche in Italia, di non prender più per oro colato biografie datate e vagamente apologetiche come quella di François Gibault (1985).
Il partito della vita
Altrettanto illimitate, e fraterne per ogni lettore non accecato da militanza ideologica, sono però anche la sofferenza, la paura, la rancorosa ribellione di un individuo anarchico, che in ogni forma di controllo sociale (dai pettegolezzi di un condominio parigino alle pastoie della burocrazia sovietica), in ogni gerarchia di valori culturali (specie se ufficiali), riconosce l’ordine omicida di una macchina bellica, l’allineamento feroce di un plotone d’esecuzione; e solo alle primarie esigenze del nudo corpo, a un elementare e incoercibile vitalismo («io sono del Partito della vita ecco!») attribuisce i crismi della verità umana.
Proprio nei tre famigerati pamphlets, Céline elabora quello stile sincopato, quel ritmo concitato e interiettivo, quell’accumulo di urlate e illogiche imprecazioni, che dominerà nei romanzi del secondo dopoguerra, trasformando la pagina in esploso mosaico di figurazioni espressioniste e deliranti j’accuse. Per questo hanno sbagliato i custodi del politicamente corretto alla francese, a interdire Oltralpe la ristampa delle Bagatelles pour un massacre, il cui magma farraginoso di fiele e pregiudizi (non a caso sospetto agli occhi dei più avvertiti fra i gerarchi nazisti) si rivela immediatamente per quello che è: ferita immedicabile, lacerazione dell’io, odiosamente sublimata in micidiale felicità espressiva.
Autobiografia postbellica
Alla stessa retorica ostentatamente non dimostrativa, alla stessa prosa interiettiva, scandita dall’afasia dei puntini di sospensione, ricorre Céline nei primi due romanzi autobiografici scritti dopo la guerra, Féerie pour une autre fois I e II: il primo ambientato negli ultimi giorni prima della fuga dalla Francia, e poi nella prigione danese; il secondo virtuosistica mimesi, e insieme espressionistica ri-creazione e onirica amplificazione, di un bombardamento alleato su Parigi – più di 350 pagine per un’unica notte.
Entrambi denuncia vittimistica di un complotto ai danni del «solo scrittore francese che è stato in gattabuia nel corso di questi anni sinistri» (come se quattordici mesi dietro alle sbarre danesi fossero stati peggio della fucilazione toccata a un Brasillach, o del suicidio scelto da un Drieu la Rochelle), e rivendicazione di un’assai dubbia innocenza del Céline medico dei poveri, al servizio degli umili e degli animali («amo Bébert», il gatto, «amo i miei malati»), corpo estraneo nei salotti collaborazionisti, filo-tedesco per mero calcolo pacifista, e ora capro espiatorio dell’ipocrisia engagée. Entrambi vorticosa commistione di cronaca e memoria, in una sistematica «Confusione dei luoghi, dei tempi!». Entrambi incalzati da un’ansia esistenziale, immediatamente tradotta in stile, che travalica le contingenze giudiziarie, per diventare cifra dell’intera vicenda céliniana: «Mai, mai ho potuto aspettare!», perché aspettare è il privilegio dei ricchi.
Il bersaglio più frequente delle più colorite invettive di Céline non sono, tuttavia, i vari intellettuali della gauche, «il fantoccio Narte e la bella Elsa» (Triolet: che, in una pagina di coprolalica visionarietà, orina addosso all’io narrante), bensì Jules, il pittore e scultore alcolizzato e destrorso, mutilato della Grande Guerra, doppio finzionale di Gen Paul, un tempo amico strettissimo di Céline, e non solo per sopravvenuta distanza ideologica o per dissapori personali.
Certo, Jules è il collaborazionista prudente, che dopo Stalingrado scarica lo scrittore, dandogli del «crucco»; e per di più insidia sua moglie, in un accesso di disgustosa lubricità, ambiguamente tollerato da Lili e ossessivamente rievocato dalla gelosia paranoide del narratore. Se l’astemio Céline si presenta come «l’uomo delle mistiche che non pagano», Gen Paul è al contrario l’opportunista, che alla Liberazione scamperà da ogni purga – lui, che era stato commensale dell’ambasciatore tedesco Otto Abetz nella Parigi occupata. Ma è anche il pittore di Montmartre, che incarna un’idea di arte al tempo stesso popolare e espressionista.
L’incubo che stravolge l’universo narrativo di Céline, trasformando la cella danese in cassa di risonanza del trauma, o il bombardamento alleato in luciferina esibizione pirotecnica – quasi il quadro di uno Chagall ‘nero’ che, nel cielo di Parigi, al volo dei bombardieri intreccia il vorticare dei palazzi distrutti – traspone in linguaggio un’analoga tensione creatrice, spennellando e modellando un’immagine di strazio («era più terribile che le sue tempere»), che accomuna le macerie belliche e l’interiorità del colpevole sopravvissuto, vittima del sadismo gregario e del macabro voyeurismo dei vincitori.
Allusioni perdute
Un corposo volume, appena uscito nell’elegante collana delle «Letture Einaudi», Pantomima per un’altra volta Normance, traduzione di Giuseppe Guglielmi, bel saggio-prefazione di Massimo Raffaeli, pp. XII- 580, € 26,00), riunisce finalmente anche in italiano i due libri gemelli. Ma non restituisce al secondo il titolo scelto dall’autore, a sancire l’unità del dittico: Féerie pour une autre fois II. Il ritorno del reprobo nelle librerie francesi, con la prima Féerie, nel 1952, fu un fiasco, nonostante la prestigiosa cauzione offerta dai tipi di Gallimard; fu proprio l’editore, due anni dopo, a sbattezzare Féerie II, che diventò Normance, dal nome di un comprimario ottuso, pachidermico, sonnolento, e nondimeno bestialmente aggressivo: per segnare una distanza fra i due libri, a fini meramente commerciali.
La ricostruzione del maggiore specialista di filologia céliniana, Henri Godard, non lascia adito a dubbi: poco comprensibile, perciò, la scelta di Einaudi di conservare il titolo spurio. E anche quella di rinunciare a ogni forma di apparato critico: almeno qualche nota di servizio sarebbe stata indispensabile all’intelligenza minima della lettera di due romanzi che rigurgitano di allusioni a un presente ormai lontano, a una cronaca dimenticata anche in Francia, a un’autobiografia per molti versi ancora oscura.
Suscita un più limitato stupore (ma non minore perplessità) il fatto che Einaudi riproduca per entrambi i testi, senza correzioni, la traduzione del poeta Giuseppe Guglielmi, che risale agli anni Ottanta del secolo scorso, e si rivela idiosincratica, se non fuorviante, fin dal frontespizio, dove Pantomima vira al comico e al teatrale l’ambivalenza della Féerie: fantasmagoria in bilico fra incantesimo lirico, o fiabesco, e grottesca deformazione (curiosamente, nel testo, Guglielmi è costretto a rendere quasi sempre féerie, appunto, con «fantasmagoria»). Ma si tratta di una versione ormai entrata nel mito, spesso promossa a ineguagliabile modello dai più agguerriti studiosi di teoria della traduzione (la cosiddetta traduttologia); di certo, più ammirata concettualmente che concretamente letta.
Nell’habitus traduttivo di Guglielmi – che con analoga strumentazione teorico-linguistica ha riscritto (più che tradotto) anche la cosiddetta Trilogia del nord (sempre per Einaudi) e Morte a credito (rimasto nel cassetto per ragioni legate ai diritti d’autore) – convergono la suggestione di un troppo celebre saggio di Walter Benjamin sul Compito del traduttore, che dichiara avanguardistico sprezzo per le esigenze del lettore («Mai, di fronte a un’opera d’arte o a una forma artistica, si rivela fecondo per la sua conoscenza il riguardo per chi la riceve»), e sembra autorizzare il calco in nome di un’estremistica fedeltà «interlineare» alla partitura linguistica dell’originale; e il partito preso di un poeta vicino al Gruppo ’63, per cui l’effetto ritmico fa aggio sul senso, la riuscita sonora della singola frase conta più del filo narrativo (che pure nell’originale è rivendicato: «C’è un filo continuo giuro»), e insomma l’autonomia del significante nega ogni diritto alla denotazione e alla logica del racconto.
La sintassi diegetica dell’ultimo Céline è al tempo stesso frammentata e ridondante, ma non rinuncia a una stravolta mimesi; la sua lingua è sovraccarica, agglutinata, sopra le righe, mai però intransitiva – anzi, vuole essere «trasposizione immediata spontanea» di un intimo monologo, come spiega la lettera famosa a Milton Hindus del 15 maggio 1947. Lo scrittore sa bene che l’effetto di parlato nasce da un complesso, raffinato artificio verbale: che deve tuttavia rimanere invisibile, mirando a un’impressione di autenticità orale, di violenta immediatezza. È la celebre «resa emotiva», la celeberrima petite musique: personalissima, e nondimeno comunicativa. Guglielmi s’inventa invece una lingua intransitiva e inesistente, che per conservare in qualche modo la cadenza ritmica dell’originale accumula i calchi sintattici e le infedeltà lessicali, al punto da rendere molte pagine quasi (o del tutto) incomprensibili.
Féerie II, per esempio, è ambientato in gran parte nella loge, cioè nella ‘portineria’, al pianterreno del palazzo in cui abita Céline, a Montmartre. In italiano si svolge invece in una «loggia», inopinatamente abitata da una «bidella»: poiché Céline dice bignolle, ‘portinaia’ in argot, il traduttore sacrifica il senso al piacere di una vaga consonanza. Jules è sistemato in una gondole: il termine in francese può designare, oltre che un’imbarcazione, una poltrona; qui indica una sedia per invalidi; ma per Guglielmi è, a ripetizione, «gondola».
Gli esempi si potrebbero moltiplicare. Ma, più ancora delle alterazioni del senso, disturbano i cervellotici sconvolgimenti della sintassi: innanzitutto, la sistematica posposizione della particella negativa: «lui ha no il delirio», «È no da ieri che ci si conosce», «Hai no conosciuto l’Antico», «Rendi no il mezzo servizio?», e via di questo passo, a ogni pagina, a scimmiottare il pas francese (e siccome anteporre l’avverbio negativo pareva a Guglielmi disdicevole, se nel suo testo si legge «sta più vicino alla moglie», bisogna intendere «non sta più…»; così, «è più che un coagulo la sua testa» vuol dire naturalmente «non è altro che un coagulo»). Ma non sono meno fastidiosi e inutili il lezioso «solo che», a volte per ricalcare rien que, a volte per puro gusto della distorsione: «niente risposte evasive! solo che il categorico!», e così via…
Il lettore che si limitasse a prelevare qualche brano sparso, aprendo a caso il volume, potrebbe facilmente imbattersi in una trovata felice: così, per esempio, Normance, commerciante disonesto in tempo di guerra, in francese designato con l’italianismo mercanti (singolare), diventa «borsaro nero».
Forse troverebbe materia per perpetuare il mito del Guglielmi traduttore d’avanguardia; o forse si farebbe l’idea che Céline scrivesse in petit nègre: «quindici giorni faceste niente cacca abbaiereste no voi?». Chi tuttavia pretendesse di leggere di filato l’intero volume, proverebbe (per dirla nella lingua di Guglielmi) solo che un senso d’irritata frustrazione.
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