L’intervista L’inglese Paul Mason, teorico del post-capitalismo, propone di stampare moneta come ponte verso un nuovo modello
Danilo Taino
Più che l’origine di svolte epocali, le pandemie possono esserne gli inneschi, le spinte definitive a cambiamenti già in fieri, acceleratrici di rivolgimenti strutturali. Lo fu la Peste Nera del XIV secolo. Oppure, possono essere concause di rotture degli ordini economici e politici esistenti. Come in una certa misura lo fu la Spagnola dopo la Prima guerra mondiale. In ogni caso, le pandemie aprono le porte a idee radicali, forniscono energia a pensatori che già prima ritenevano necessari cambiamenti incisivi.
Paul Mason, 60 anni, è un commentatore britannico che ha diretto programmi sia di economia sia di cultura per Newsnight della Bbc e per Channel 4 News. In Italia ha pubblicato due libri con il Saggiatore: Postcapitalismo (2016) e Il futuro migliore (2019). Radicale nella sua analisi, in effetti, Mason lo è. Ed è ottimista: pensa che questa sia l’occasione per una grande trasformazione.
Innanzitutto, qual è la sua lettura della situazione in cui siamo finiti?
«Iniziamo con il riconoscere che questa crisi è diversa da ogni altra avvenuta in era industriale. È caratterizzata da una caduta sia della domanda che dell’offerta. L’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) prevede un crollo degli scambi internazionali che quest’anno potrebbe arrivare fino al 32%. Dopo la crisi del 2008, gli interventi delle banche centrali e degli Stati sono stati enormi e decisivi: 30 miliardi di dollari di quantitative easing per quel che riguarda la politica monetaria e l’accumulo fino a 73 mila miliardi di stock di debiti pubblici nel mondo. Banchieri centrali come Mario Draghi alla Bce e Mark Carney alla Bank of England hanno di fatto realizzato un ponte verso un nuovo modello di capitalismo. Qui ora siamo».
Già, qui, con denaro stampato in quantità e con indebitamenti mai visti.
«Una ripresa economica più o meno a V ci potrà essere solo se evitiamo un contagio finanziario, altrimenti avremo una recessione prolungata. E se evitiamo di tornare a politiche di austerità come dopo la crisi del debito europeo. In questo caso il destino di un po’ tutti sarebbe quello che ha sperimentato la Grecia. Dobbiamo evitare di impiegare 18 o 24 mesi per recuperare: sarebbe la distruzione dell’economia mondiale. Evitare questa catastrofe dipende dalle scelte politiche che si faranno».
Quello che si sta facendo oggi non basta?
«Lo stimolo fiscale deciso finora non basta. Si è iniziato a parlare di helicopter money (denaro stampato dalle banche centrali e distribuito a imprese e cittadini, ndr) e oggi questa è un’opportunità. Le banche centrali devono fare partire Qe on steroids, cioè quantitative easing potenziati, acquisti di titoli sui mercati sostanzialmente senza limiti. L’idea è quella di creare un ponte verso il futuro, cioè che le banche centrali comprino debito emesso dagli Stati per una generazione. Così si acquisterebbe spazio per respirare e si eviterebbe una nuova fase di austerità tra un paio d’anni».
Quindi la trasformazione che lei ha in mente consiste in governi che spendono e vanno a prestito dalle banche centrali, le quali stampano moneta per soddisfare le esigenze degli Stati.
«C’è un terzo pilastro necessario, la presa di controllo di certi settori dell’economia da parte degli Stati. È un riflesso da tempo di guerra: ordiniamo riconversioni produttive. Alla Siemens, per dire, diciamo di fare respiratori sanitari. Le produzioni medicali andrebbero messe sotto il controllo dei governi, ora. Le ferrovie andrebbero nazionalizzate perché sono insolventi. Così le aerolinee. Serve un commissario o, se si preferisce, uno zar della produzione. Che per esempio intervenga anche nella distribuzione alimentare, che sarà colpita dalla rottura delle catene di produzione. Per evitare il panico».
Propone un’economia di piano? Ha già fallito parecchio nella storia.
«No, non credo in un’economia di comando. Si tratta di battere la contrarietà ideologica delle classi dirigenti agli interventi dello Stato. Vedo invece un sistema di proprietà comunitarie, cooperative, municipali, vedo le banche etiche, le unioni per il credito».
Trasformazioni di grande portata.
«La grande novità ormai evidente è che le nostre economie non sono resilienti. Il 2008 ha rotto la globalizzazione e ha reso chiaro che il modello neoliberista è fallito. Ora tutto è messo in discussione non dal virus, ma dalla debolezza del modello economico e del sistema multilaterale. Non possiamo dimenticare Hobbes e Machiavelli: lo Stato è un contratto perché i cittadini temono il caos; se lo Stato fallisce nel proteggere la gente, abbiamo un problema serio. I cattolici forse lo accettano un po’ di più; i protestanti, individualisti, di meno: gli Stati Uniti da questo punto di vista sono il protestantesimo all’ennesima potenza».
Uscirà una nuova idea di socialismo da questa pandemia, dunque?
«Più semplicemente penso che la crisi rappresenti un’opportunità perfetta per resettare l’economia e la società, come fece Keynes. L’economia dev’essere diversa, occorre darle una nuova forma. Ma evito di parlare di socialismo, non ci serve un lungo periodo di statalismo. Io sono anticapitalista perché penso che, come tutto, anche il capitalismo abbia un inizio e una fine. Dobbiamo muoverci verso un post-capitalismo più giusto, meno ineguale. Oggi c’è un’analogia con il XIV secolo, quando la peste bubbonica trasformò la psicologia e contribuì ad aprire la strada al Rinascimento. Anche ora c’è una transizione in agenda: in passato ho pensato che a fare scattare la trasformazione sarebbe stato il cambiamento climatico, ma ora vedo che l’opportunità viene dalla pandemia».
Una trasformazione totale?
«In questo momento cerco un modello di breve termine per il capitalismo. Un post-capitalismo sostenibile che permetta di raccogliere i pezzi di ciò che si è rotto. E gli strumenti per farlo li ha solo lo Stato, come ho detto: prendere a prestito, creare denaro, avere una strategia industriale».
Chi guida questo cambiamento? Occorre costruire un consenso per un progetto così radicale.
«Mi pare che questo sia il momento nel quale le persone che hanno resistito alle misure prese dopo il 2008 iniziano a considerare soluzioni radicali. Anche parti delle élite. Per esempio, il «Financial Times» è molto più aperto di un tempo a posizioni tradizionalmente socialdemocratiche. Il problema è: una volta che questo sistema si è rotto, chi lo sostituisce? Trump? Salvini? A mio parere lo deve sostituire un’alleanza tra élite e masse, come direbbe Hannah Arendt. Io sono stato associato a Jeremy Corbyn, ma lui non ha capito che dobbiamo conquistare il centro. Siamo in un periodo simile a quello dei Fronti popolari degli anni Trenta: occorre che centro e sinistra stiano assieme, come pensava Togliatti nel 1935-36, per difendere e riconquistare la democrazia».
A livello geopolitico che evoluzione vede?
«Non solo gli Stati Uniti sono guidati da un isolazionista, ma isolazionista era anche il predecessore di Trump, Obama, e lo sarebbe anche il possibile successore, Biden. L’America è autosufficiente: certo, proteggerà l’Arabia Saudita, chiuderà ogni porta all’Iran, ma di fondo sta abbandonando il suo ruolo globale. C’è un altro leader globale? No, la Cina non è un potere globale. Immagino dunque un mondo multipolare. E qui c’è il ruolo dell’Europa da proteggere. Non possiamo essere un potere globale, Ursula von der Leyen non è Roosevelt. Ma possiamo essere un potere regionale. Un centro e una sinistra progressisti possono creare un modello europeo. Ma la Ue deve fare scelte chiare e decise: il virus non si può scalciare giù per la scarpata come una lattina, occorre che l’Europa superi le sue disfunzioni. Per esempio deve mutualizzare la solidarietà. E per esempio vorrei che Germania, Francia, Italia non tollerassero più i dittatorelli tipo quello ungherese: dovrebbero dire a quei Paesi che la Ue è questa, ma se vogliono Putin possono andare».
Vede cambiamenti in vista nelle abitudini dei cittadini e dei consumatori?
«Da un decennio sostengo che la tecnologia digitale ridisegna il modo di vivere, che ci farà lavorare meno e ci darà la possibilità di occuparci più di cultura. E in questa crisi ci sono aspetti che illustrano come può essere il ridisegno, come può cambiare la vita umana. Per esempio, a me capita di fare del baratto; e devo dire che mi fa stare bene. A Londra, dove vivo, l’aria inquinata è sparita e sono tornati gli uccelli, anche rapaci».
La Lettura – Corriere www.corriere.it › la-lettura