Il cordoglio e la pietà per quanti continuano ad essere inghiottiti in quell’immenso cimitero che chiamiamo Mediterraneo si uniscono ormai all’ansia della fretta e alla paura dell’impotenza. Sono «soltanto» dieci i morti di ieri. Ma negli ultimi quattro giorni i migranti sono stati quasi settemila. E siamo soltanto in aprile, all’alba della buona stagione. Chi dedica ai flussi migratori dalla Libia una attenzione professionale ritiene che l’Italia abbia due mesi, tre al massimo, prima che sulle nostre coste meridionali si abbatta uno tsunami di diseredati: 250.000 secondo gli ottimisti, 500.000 per chi crede che a mettersi in moto sarà un «bacino» più ampio costantemente alimentato dal moltiplicarsi delle guerre, dal Corno d’Africa allo Yemen, dalla Siria più che mai in fiamme all’Iraq dove si tenta di contenere l’Isis. Per avere un termine di paragone, nel 2014 la cifra corrispondente fu di 170.000 per tutto l’anno.
Inevitabilmente, se le cose andranno così, molti moriranno nel tentativo di raggiungere l’Europa toccando le rive italiane. A loro andrà ancora una volta il nostro dolore, mentre Guardia costiera, Marina militare e tanti altri si dedicheranno a salvare i più fortunati. Ma non ci si può più fermare a questo. L’arrivo di una massa di immigrati senza precedenti tenderà a destabilizzare la nostra politica interna favorendo i partiti del tanto peggio tanto meglio, assorbirà risorse economiche che non ci sono, farà piovere sull’Europa sacrosante indignazioni, ma l’Europa poco farà per darci una mano, inaridita com’è dalle competenze nazionali e dalla scarsità di mezzi e di volontà politiche.
L’ opinione pubblica italiana non deve farsi travolgere. Deve invece pensare al costo delle guerre e delle miserie, anche di quelle lontane. Ma soprattutto, se è vero che abbiamo due o tre mesi di tempo, dobbiamo identificare nella Libia il primo interesse nazionale italiano e tentare, con i nostri alleati, di battere sul tempo i negrieri del XXI secolo. Si dice che siano ventimila i miliziani libici che gestiscono i campi di coloro che attendono il barcone di turno. Gestiscono, cioè torturano, violentano, estorcono denaro dalle famiglie d’origine e poi consegnano i disgraziati agli scafisti. Non sarebbe impossibile colpire la loro logistica, ma chi ci coprirebbe le spalle? Quale governo libico legittimerebbe la nostra azione? Come potremmo evitare di unire tante altre bande e tante altre milizie contro lo straniero, per di più ex colonizzatore?
Il negoziato e la politica anche per questo tengono ancora banco. Perché in Libia, se si vuole evitare un disastro ancora più grande e indirizzare tutti contro l’espansione territoriale dell’Isis, bisogna far nascere un unico interlocutore. E bisogna farlo imponendo un limite di tempo alle rivalità, alle vendette, alle ambizioni smodate delle fazioni che hanno sin qui messo i bastoni tra le ruote al rappresentante dell’Onu Bernardino León. Ad Algeri è cominciato ieri il secondo round di incontri tra parlamentari di parti opposte. Domani si tornerà anche al più importante tavolo di Rabat, e León spera di strappare un accordo sulla sua complessa proposta istituzionale: un governo di unità con a capo un presidente, e al suo fianco un consiglio presidenziale composto da tecnici indipendenti; un Parlamento basato su quello odierno di Tobruk ma arricchito da una fetta di quello di Tripoli; un Consiglio di Stato e una assemblea costituzionale. Ottimo per trovare un posto a tutti, ma potrebbe funzionare? Certamente no se l’ex generale Haftar continuerà a fare la guerra con l’appoggio di Egitto ed Emirati, trovandosi di fronte gli islamisti foraggiati dal Qatar e dalla Turchia. Certamente no se si accentuerà la tendenza alla disgregazione politica e militare presente su entrambi i fronti, a tutto vantaggio dell’Isis.
L’onda anomala di umanità straziata e straziante è ormai alle porte, lo spazio ancora a disposizione della diplomazia è minimo. E anche l’uso della forza non può essere oggetto di facile retorica, se si tiene in conto che una operazione di peace keeping in Libia, con l’accordo dell’Onu e dopo un eventuale successo negoziale, richiederebbe da sessantamila a settantamila uomini pronti a combattere e a morire, non soltanto ad istruire o ad assistere. Dalla Libia, per un verso o per l’altro, è in arrivo una sfida alla tenuta del nostro fronte interno. Quello stesso fronte che subisce involuzioni deleterie in altri Paesi mediterranei, a cominciare dalla Francia con il riciclato Front National e dalla Grecia con la neonazista Alba Dorata.
Franco Venturini