Qualche anno fa trascorsi alcuni mesi in una stanza in affitto a Brooklyn. Una mattina vidi uno scarafaggio camminare sul lavandino del cucinotto. Ne parlai alla padrona di casa, lei fece spallucce: «Tutte le case di New York brulicano di scarafaggi. Se non li vuoi vedere, pulisci dove hai mangiato».
La scena mi è tornata in mente quando, affacciandomi di notte al balcone di casa mia a Milano, ho visto tre grossi topi zampettare da un marciapiede all’altro di Porta Venezia. L’immagine va ad aggiungersi a quelle che arrivano ormai da ogni parte di un mondo in progressivo lockdown: cinghiali selvatici che brucano l’erba dei parchi a Sassari, coyote a zonzo per le strade di San Francisco, cervi che galoppano per i quartieri di Saragozza, delfini che giocano nel molo di Trieste… Siamo così abituati a vedere le città come dominio umano, che questi avvistamenti ci appaiono come una «riconquista». Ma è un’interpretazione fuorviante, dal momento che molti di quegli animali già vivevano entro il perimetro urbano, mentre altri avevano cominciato a «violarlo» ben prima che il Sars-CoV-2 spopolasse le città del mondo. Per quanto questi animali possano apparirci come intrusi, in realtà è vero il contrario. Negli ultimi decenni il tasso di urbanizzazione globale è cresciuto al punto che oggi il 50% delle persone vive in città, un processo che ha compromesso gli habitat naturali di molte specie, spesso costrette a passare dall’erba al cemento in cerca di cibo. Alcuni animali selvatici, come cervi e daini, si spingono nelle aree urbane perché forniscono un riparo da predatori naturali (il lupo) e umani (i cacciatori). Altri, come le scimmie di Bangkok, sanno di poter contare sul cibo proveniente da turisti e immondizia. Molti però sono in città per un motivo molto più semplice: ci hanno sempre vissuto.
Prendiamo i coyote di San Francisco: non passa giorno senza che vengano pubblicate foto che ritraggono questi canidi mentre zampettano sull’asfalto della Golden City. In realtà, fino alla metà del XX secolo erano una presenza fissa nei parchi della città; poi allevatori e agricoltori li decimarono per proteggere i terreni. Negli ultimi vent’anni, il coyote è tornato ad occupare gli spazi verdi in città; e siccome ha l’abitudine di cacciare roditori, procioni e alcune specie di uccelli, la sua presenza contribuisce a consolidare gli equilibri ecologici.
Qualcosa di simile sta accadendo a Mumbai, dove i leopardi che oggi vivono nel parco nazionale Sanjay Gandhi contribuiscono a contenere la proliferazione incontrollata di cani randagi in città, riducendo l’incidenza della rabbia negli esseri umani, che in India uccide ogni anno circa 20 mila persone. Ma se la presenza di queste specie è stata altalenante nelle varie epoche, ce ne sono altre che hanno piantato le tende nelle città tanto a lungo da cominciare a deviare il proprio corso evolutivo. Tra il 1940 e il 1941, durante il blitz della Germania nazista, i tunnel della metropolitana di Londra fornirono riparo a decine di migliaia di persone. Ben presto i rifugiati vennero presi d’assalto da zanzare che in teoria avrebbero dovuto mostrarsi schizzinose nei confronti degli umani (Culex pipiens tende a nutrirsi del sangue degli uccelli). Negli anni Novanta, i ricercatori dell’Institute of Zoology di Londra hanno scoperto che le zanzare «sotterranee» avevano abitudini completamente diverse da quelle di superficie: erano in grado di riprodursi in ambienti ristretti, non andavano in letargo e, soprattutto, prediligevano il sangue dei mammiferi. Alcuni zoologi sostengono che queste zanzare appartengano a una variante migrata dai Paesi del Mediterraneo, che ha trovato nella metropolitana un ambiente ideale; altri, invece, che siano le discendenti di quelle rimaste intrappolate durante la costruzione dei tunnel e dunque sottoposte a una pressione selettiva che ha portato all’emergere di una nuova varietà, oggi nota come Culex pipiens molestus.
Ad ogni modo, che le città possano servire da laboratori evolutivi è noto almeno dalla metà del XIX secolo, quando gli entomologi iniziarono a notare che la farfalla delle betulle dalle ali scure, una variante rara, stava prendendo il sopravvento su quella dalle ali chiare. Il motivo era tanto sorprendente quanto palese: con la rivoluzione industriale, i fumi dovuti alla combustione del carbone avevano modificato il colore della corteccia delle betulle, facendo sì che la variante scura si mimetizzasse meglio e avesse dunque un vantaggio evolutivo. Questo fenomeno, chiamato «melanismo industriale» è solo un esempio di come l’ambiente cittadino stia modificando la fisionomia e il comportamento di certe specie animali. Alcuni studi, ad esempio, mostrano come i piccoli mammiferi di città (per esempio scoiattoli e pipistrelli) tendano ad avere un volume cranico maggiore e a mostrarsi più temerari dei loro parenti di campagna; altri ancora rivelano come in alcune specie di uccelli (tra cui i passeri e i cardellini) il volume e la frequenza sonora del canto siano cambiate in modo da emergere dal frastuono delle città.
Ma torniamo ai roditori. Lo scorso febbraio, un team di ricercatori della Columbia University guidato dal genetista Arbel Harpak ha mostrato come il Dna dei ratti di New York presenti significative differenze con quello di esemplari della stessa specie (Rattus norvegicus) prelevati da contesti rurali. L’ipotesi di Harpak è che questa specie si stia progressivamente adattando a digerire alimenti più ricchi in zuccheri e grassi, e a spostarsi più facilmente in ambienti stretti e umidi come i tubi degli scarichi. Si calcola che entro il 2030 due terzi della popolazione mondiale vivrà in un contesto urbano. Ma come abbiamo visto, più le città si espandono, più vanno a rompere gli equilibri naturali degli ambienti che le circondano, più aumentano le probabilità di contatto tra umani e specie selvatiche. Alla luce di ciò sarà fondamentale ripensare la pianificazione urbana non solo riducendo al minimo l’impatto sugli ecosistemi vulnerabili, ma anche mantenendo spazi verdi adatti a incorporare nuove specie e a salvaguardare la biodiversità. Senza dimenticare che la gestione del contatto tra uomo e specie selvatiche è un cruciale nella prevenzione dei salti di specie virali, e dunque di altre possibili pandemie.