Quella di Lucia Bosè è una parabola fatta di libertà indomita. In tante interviste rilasciate, ha sempre detto con piglio deciso che non è mai stata schiava del suo lavoro: «Ho dedicato al cinema il 50% della mia vita, l’altro 50 alla mia indipendenza». Se ne trova testimonianza indelebile in Lucia Bosè – Una biografia di Roberto Liberatori (ed. Sabinae, pp. 404, € 18,00), testo intenso e puntuale uscito a ottobre scorso, presentato dalla stessa Bosè all’ultima Festa del Cinema di Roma.
Nata a Milano in una famiglia di modeste origini (i genitori Domenico Borloni e Francesca Bosè provenivano dalle zone di San Giuliano e Lodi), l’indole di Lucia è stata fin dall’adolescenza sinonimo di ribellione: «Quando andavo a scuola, mi tagliai le trecce per non assomigliare alle mie compagne, tutte uguali e un po’ cretine. Le botte di mia madre le ricordo ancora, fu il mio primo gesto controcorrente».
All’età di 16 anni, mentre impacchettava marron glacé nella pasticceria Galli, a 300 metri da piazza del Duomo, viene notata da Luchino Visconti che l’apostrofa come «animale cinematografico». Bosè, ancora inconsapevole di quelle parole magiche, resta interdetta e Giorgio De Lullo, che era con Visconti, le dice: «Ma sa chi è quest’uomo? È Visconti!», e lei: «Bè? E chi è Visconti?».
Miss Italia e il cinema
Da quel momento inizia una lunga amicizia tra la futura diva e il regista di Ossessione, non prima però di aver vinto, sempre nello stesso anno – il 1947, il titolo di Miss Italia (all’epoca il concorso si chiamava Bellezza italiana) sorpassando Eleonora Rossi Drago, Silvana Mangano, Gianna Maria Canale e Gina Lollobrigida, quest’ultima presa in giro amichevolmente da Bosè per un terzo posto mal digerito: «Credo non si sia mai rassegnata. Un amico inviò ai selezionatori una mia foto e fui convocata. Quando vinsi non ci credevo perché ero una tusa de Milàn, neanche sapevo cosa fossero i tacchi».
Il mondo del cinema arriverà solo qualche anno più tardi, il padre voleva che aspettasse almeno la maggiore età per trasferirsi a Roma. E così avvenne, complice Visconti che le organizzò un provino con Giuseppe De Santis per Non c’è pace tra gli ulivi (1950), dove Bosè si lancia in un balletto ciociaro: agita le braccia, muove il bacino, alza il vestito sopra le ginocchia e la critica bolla la scena come «osé».
Subito dopo, sempre grazie a Visconti, arriva Cronaca di un amore (1950), esordio di Antonioni nel lungometraggio e totale ribaltamento di ruolo per Bosè che da contadinella passa a borghese glaciale con filo di perle al collo: «Il personaggio è una donna di 35 anni, io ne avevo 20. Non è stato semplicissimo perché Antonioni voleva che rimanessi aderente al personaggio, ma qualche volta riuscivo a metterci del mio». Il regista arrivò addirittura a schiaffeggiarla per mantenere la serietà dovuta alle scene da realizzare: «Perché Citto Maselli, che era l’assistente di Antonioni, continuava a farmi sghignazzare».
Il sodalizio con Antonioni continua con La signora senza camelie (1953) secondo titolo, dopo Bellissima, in cui il cinema nostrano si riflette allo specchio, sganciandosi dal pedinamento neorealista e mettendosi a nudo in quell’intrigante gioco della metacinematografia.
Ci sono stati anche Luciano Emmer (Bosè lo definì un «pazzo creativo») con Parigi è sempre Parigi (1951), ma soprattutto con Le ragazze di piazza di Spagna (1952), favola rosa che accompagnerà intere generazioni di giovani sognatrici; e ancora De Santis per la seconda volta, col meraviglioso Roma ore 11 (1952), e Buñuel col feroce Gli amanti di domani (1956).
Innamoramenti e no
Proprio in quegli anni Bosè rompe il fidanzamento con Walter Chiari, «per lui sono stata un grande amore, mentre io non ero innamorata» e sul set di Gli egoisti (1955, di Juan Antonio Bardem, zio di Javier) conosce il matador Luis Miguel Dominguín, amico del produttore Manuel Goyanes. Matrimonio lampo dal quale avrà tre figli (Miguel, Paola e Lucia), lei si trasferisce in Spagna e lui le impone l’addio al cinema, in realtà più una pausa durata circa 10 anni, rotta da un divorzio rocambolesco a seguito dei continui tradimenti di lui: «Dopo una battaglia legale per la custodia dei figli, mi lasciò la casa e l’affidamento dei bambini. Arrivai a minacciarlo di sparargli con un fucile. In realtà non ho sofferto tanto, altrimenti sarei impazzita. Dominguín rimarrà comunque l’amore più animalesco della mia vita».
Poco avvezza ai formalismi, da questo momento (è il 1967) si avvia la ripresa di carriera, purtroppo senza i fasti degli inizi. Le storie sono mutate, così come le produzioni e i ruoli scritti. Bosè, alla soglia dei 40 anni, si trova ad alternare autorialità e genere. Da Fellini Satyricon a Qualcosa striscia nel buio; da Metello e Per le antiche scale a Le vergini cavalcano la morte; da Sotto il segno dello scorpione a La profonda luce dei sensi.
Ultimi fuochi
Grande amica di Jeanne Moreau – hanno lavorato insieme in Nathalie Granger di Marguerite Duras – che la dirige nello sfortunato Scene di un’amicizia tra donne, con l’arrivo dell’età matura compaiono gli ultimi titoli, ormai come pura comprimaria: Cronaca di una morte annunciata (Francesco Rosi), Volevo i pantaloni (Maurizio Ponzi), L’avaro (Tonino Cervi), Harem Suare (Ferzan Özpetek) e I Viceré (Roberto Faenza). Poi, a un certo punto, il ritiro: «Basta, non voglio più far niente, per carità».
Nel 2000 inaugura il Museo degli angeli a Turégano (vicino Segovia, a nord di Madrid, dove abitava) e da quel momento l’abbiamo sempre ammirata con i capelli tinti di blu, perché la nipote si divertiva a colorarglieli: proseguiva così la sua ribellione per non essere uguale agli altri; anticonformista come quando andava a scuola con le trecce sforbiciate; una vita traboccante libertà, con lo sguardo puntato al futuro: «Mi sono programmata fino ai 105 anni», diceva. Ma ora, da Segovia, la tusa de Milàn dalla chioma marina ha raggiunto quegli angeli che tanto adorava.