Nel destino comune di «vecchi» e «bambini»

Nel caos che attraversiamo, uno dei temi che si impongono all’esperienza e alla sua rappresentazione è quello delle generazioni. Mentre il giovane e baldo virus viaggia e supera quelle frontiere che sempre più Paesi stanno chiudendo, certi telegiornali snocciolano la conta delle vittime specificando, quasi come se questo potesse farci tirare un sospiro di sollievo, che si tratta soprattutto di «vecchi». Tra i bambini, meno suscettibili di ammalarsi ma contagiosissimi, e i vulnerabili anziani rischia di aprirsi una frattura che può spingere il mondo verso un orizzonte muto e ignoto. La pandemia ci costringe a fare i conti con le nostre paure più profonde, con il timore della malattia, del decadimento e della fine. Ci sentiamo vulnerabili, obbligati a fare i conti con un’incapacità a districarci, a trovare una composizione tra elementi divergenti e a dare loro un senso. Di fronte alla pandemia, non estranea a cambiamenti climatici, squilibri ambientali e a un inquinamento che compromette difese immunitarie e funzionalità del sistema respiratorio, osserviamo ciò che accade ai vecchi come un monito. Attraverso l’arte, al riparo dalle ombre del cinismo e delle semplificazioni, i «vecchi» così come i «bambini» possono però dirci qualcosa del nostro destino comune.

UNO che ama gli anziani è Alain Guiraudie, il regista e scrittore francese noto ai più per Lo sconosciuto del lago (2013). In molti suoi film,rompe il tabù del legame tra desiderio e terza età per dare a personaggi avanti con gli anni il ruolo di motore trasformativo della storia.
Nel suo Rester vertical (2016), il protagonista Léo, interpretato da Damien Bonnard, è uno sceneggiatore in piena crisi creativa che vaga in una regione montagnosa alla ricerca di ispirazione. La zona è in preda a un’invasione epocale di lupi che nel buio della notte fanno strage di agnelli. I pastori vivono sotto questa minaccia e tra loro c’è Marie, ragazza madre con cui Léo intreccia una relazione e da cui ha presto un figlio. Dopo la gravidanza, la ragazza cade in una depressione che è l’offuscarsi di ogni orizzonte, l’impossibilità di concepire un futuro. Così Léo si ritrova solo, senza ispirazione, senza soldi e con un fagottino che piange tutta la notte come un agnello. Nel frattempo, l’uomo stringe amicizia con un anziano del luogo, un uomo burbero che ha un rapporto ambiguo con un giovane che Léo vorrebbe coinvolgere in un ipotetico film ma con cui, più probabilmente, vorrebbe avere una relazione. L’anziano vede prima Léo come un rivale ma pian piano i due finiscono per allacciare un rapporto di amicizia in cui l’empatia viaggia a un livello profondo oltre il non senso di parole che sembrano dettate dalla demenza senile ma forse non potrebbero essere più umane: «Come stanno i tuoi genitori?» «Ma tu mi riconosci?» Certo» «E allora perché mi chiedi dei miei genitori, non li hai mai conosciuti?» «Lo so, ma tutti hanno dei genitori, lo faccio per buona educazione».
Verso la fine del film, in una scena che forse è un delirio allucinatorio forse l’episodio più lucido di questo apologo sull’approssimarsi dell’apocalisse e sulla necessità di elaborare un’etica dell’estinzione, i due passano a letto insieme quella che sarà l’ultima notte dell’anziano.

ANALOGAMENTE, Guiraudie narra nel suo romanzo Qui comincia la notte (Clichy, 2014) una discesa nel profondo delle paure più recondite della nostra civiltà e nelle ossessioni securitarie con cui si cerca di far fronte alla mancanza di controllo sulle nostre vite. In un giorno d’estate in un piccolo borgo del sud della Francia, Gilles si trova a passare di fronte alla casetta di Mariette e Pépé, una coppia di conoscenti: lei è la figlia di mezza età e lui il padre novantenne. Gilles prova verso Pépé un’attrazione in cui l’immaginario ha un ruolo fondamentale nel tingere di erotismo un trasporto fatto più che altro di tenerezza e di pulsioni ancestrali. Tra loro, per esempio, più il rapporto si fa profondo, più Pépé abbandona il francese per rivolgerglisi in occitano, lingua materna, lingua dell’infanzia e del rimosso che il potere politico e scolastico gli ha imposto di censurare. I due la pagheranno carissima quando tra loro si frapporrà «Il capo», un poliziotto violento e sadico innamorato di Gilles che nel libro funge un po’ da super-io punitivo, che norma e regola i comportamenti, disciplina con il terrore, impone il coprifuoco minacciando i due di morte e sanziona senza pietà le pulsioni scandalose che legano Gilles e Pépé.

Di tabù in tabù, come già in versione eterosessuale in La casa del sorriso (1991) di quel Marco Ferreri che sin da El cochecito (1960) aveva messo i desideri di personaggi in là con gli anni al centro del suo cinema, la casa di riposo può diventare luogo di incontro e liberazione delle pulsioni che non invecchiano con l’età: così accade in Gerontophilia (2013) di Bruce LaBruce quando il diciottenne Lake trova lavoro come inserviente in un ospizio e ciò libera l’attrazione per gli uomini anziani che ha sempre tenuto nascosta, castrato dalle relazioni con la fidanzata femminista e con la madre. Sesso, ma anche amore, contro i pregiudizi razziali, sessuali e generazionali.

PER QUANTO riguarda invece i bambini, anche quelli non ancora venuti al mondo, e in un registro più distopico, Sur la terre comme au ciel (1992) di Marion Hänsel mette in scena un fenomeno tanto surreale quanto eloquente: i bambini non vogliono nascere perché il nostro pianeta è ormai troppo crudele e inquinato; quelli che vengono fatti nascere con il cesareo muoiono subito e la protagonista interpretata da Carmen Maura fa di tutto per evitare che ciò accada anche al suo bambino. Un film di fine Novecento che può piacere molto ai Fridays for future di oggi, perché interroga le norme e i valori dominanti e ci permette di ripensare in modo etico e non per forza consolatorio a come viviamo e a come moriamo, a come scopriamo il mondo e a come lo lasciamo, e alle relazioni che stabiliamo tra generazioni.

 

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