Novecento L’edizione Aragno dell’opera di Spengler, nella versione di Giuseppe Raciti, offre spunti importanti per riflettere a fondo sul futuro di una civiltà che sembra aver perso il legame con la sua vocazione universale e illuminista
di Claudio Magris
Sono la cieca xenofobia e la rinuncia ai nostri valori le minacce più gravi alimentate da una falsa cultura.
La sera cala due volte nel Tramonto dell’Occidente; il calare del sole della civiltà e nel nome stesso della terra in cui esso cala, l’Occidente, Abendland, come si dice in tedesco, Paese della Sera. Si chiama così non soltanto per la sua collocazione geografica ma perché, anche e soprattutto nelle sue stagioni più fulgide di grandezza e di potenza, è — sarebbe? — pervaso dal senso del proprio declino. È stata soprattutto la cultura tedesca — erede di quella greca e soprattutto della tragedia greca quale essenza della vita, individuale e collettiva — a sentire e ad esprimere questo senso tragico dell’esistenza e della Storia. Tramontare, per Friedrich Nietzsche, significa pure superarsi ed è tragico che superarsi significhi, per l’individuo e ancor più per le civiltà, tramontare.
Non è un caso che il travagliato, pletorico, affascinante, talora geniale e talora pacchiano bestseller di Oswald Spengler sia apparso nel 1918, quando la fede illuminista nel progresso stava andando a pezzi, il naufragio del Titanic aveva trascinato con sé l’entusiasmo per la tecnica e una guerra mondiale catastrofica per i vinti e per i vincitori aveva fatto esplodere l’edificio della civiltà e dell’ordine europeo ovvero mondiale, in un terremoto tuttora e forse sempre più in corso.
Avere ripubblicato, in una splendida e splendidamente curata versione di Giuseppe Raciti, i due grossi tomi di Spengler è un ulteriore merito dell’editore Aragno, che con regale imperturbabilità ci ha reso e ci rende possibile la lettura e la conoscenza di molti testi fondamentali, senza preoccuparsi troppo di distribuzione e vendite e facendo dunque cultura nel senso forte del termine. Non sono molti gli editori che, anche potendoselo permettere, fanno altrettanto. Una simile liberalità è un piccolo antidoto alla devastazione della cultura.
Il famigerato e magniloquente libro di Spengler racconta il nascere e il declinare delle e della civiltà come fioritura e decadenza di organismi viventi e dunque perituri, ancorché gloriosi. Le categorie cui si affida si riducono sostanzialmente a una, l’antitesi fra Kultur, parola in cui Carlo Antoni avvertiva un pathos storico-esistenziale, e Zivilisation ossia l’antitesi tra visione del mondo e di valori (e, per lui, pure di volontà di potenza) e progresso tecnico e tecnologico con la sua ideologia politica. Thomas Mann ha reso famosa questa antitesi ma non è certo il solo. Le discussioni sulla tecnica e sulla tecnologia sono da decenni un tema fondamentale del dibattito filosofico e dell’esperienza quotidiana, nelle sempre più vertiginose trasformazioni della vita che fanno sembrare l’individuo concreto sempre più spaesato e superato, fuori posto e straniero in una realtà in cui l’artificiale sta diventando sempre più la natura dell’uomo.
Già per Spengler — peraltro più possente megafono che scopritore originale di una crisi, di un tramonto vero o presunto ma comunque ripetutamente annunciato — le civiltà declinano e muoiono quando si spegne la loro unità organica, quella che permette di parlare di civiltà greca, cristiana, araba, rinascimentale e così via. L’organico è l’ossessione e l’ideale di Spengler. Ora — ossia da più di un secolo, visto che il suo libro è del 1918 — è o sarebbe la volta dell’Occidente di tramontare se non di essere già tramontato nella sua unità organica e complessiva. Il libro di Spengler è una grande narrazione, talora un romanzo o romanzone, ricco di pathos e di enfasi, di intuizioni geniali e di scenari spettacolari da Kolossal.
È ovvio che la sua opera venisse rifiutata con preoccupazione da Benedetto Croce o da Antoni e celebrata da Julius Evola, che la tradusse, e da altri rappresentanti — soprattutto ma non solo tedeschi — dell’irrazionalismo, affascinati dalla sua ammirazione dell’uomo quale animale da preda. Possiamo soltanto immaginare che cosa avrebbe detto sarcasticamente Nietzsche di questo libro che è anche un polpettone, una caricatura del Superuomo — o meglio Oltreuomo, felicissima traduzione di Gianni Vattimo della parola tedesca Übermensch.
Ma questo debordante compendio di Storia Universale non è soltanto, come scrive Musil in una stroncatura del 1921, lo zibaldone di uno che «mette insieme, come quadrupedi, i cani, i tavoli, le sedie e le equazioni di quarto grado». È anche un’opera confusamente geniale e spiacevolmente attuale; fa avvertire qualcosa che Spengler non poteva ancora veramente conoscere ma solo immaginare, ossia una reale crisi dell’Occidente, sempre più attuale e incombente. Stiamo progressivamente perdendo il senso di una comune civiltà, di un’appartenenza che comporta ovviamente differenze anche aspre ma che in qualche modo è — era? — una lingua mentale e sentimentale comune. Quello che chiamiamo Occidente tramonta perché perde il senso di una propria unità sottostante alle diversità e alle divergenze. L’Occidente tramonta anche perché non si vergogna di tramontare malamente.
C’è una duplice chiave di questo processo. La civiltà che chiamiamo occidentale si è arricchita, nei secoli, dell’incontro, anche conflittuale ma fecondo, con altre civiltà. Non saremmo quelli che siamo — siamo stati? — senza la civiltà araba, alla quale fra l’altro dobbiamo tante conoscenze della base fondante della nostra cultura, la civiltà greca. L’Occidente ha commesso errori ed orrori come tutte le civiltà, ma la sua struttura profonda è stata e non può essere che universalistica. L’Editto di Caracalla che rende tutti cittadini dell’Impero romano; il Diritto romano che regola per sempre rapporti pubblici e privati i quali non valgono solo per i Romani. I barbari che invadono l’Impero e poi ne sono difensori, come Ezio o Stilicone che in extremis riaffermano la gloria delle legioni. I Franchi senza i quali non ci sarebbe stato il Sacro Romano Impero, realtà europea per eccellenza. L’Illuminismo che non è di una sola e singola nazione, la triade Liberté-Egalité-Fraternité valida al di là di ogni frontiera. L’arte figurativa, profondamente radicata nell’una o nell’altra tradizione ma organicamente europea; il pensiero filosofico che non appartiene ad alcun singolo popolo.
Ora invece l’Occidente, ad esempio dinanzi al problema delle nuove migrazioni di popoli — problema reale, da affrontare con umanità e razionalità, senza isterie e senza pappa del cuore — reagisce con accenti e gesti barbarici, alimenta e coltiva un viscerale e inumano razzismo, fa risorgere incubi, si autocontagia di malattie mortali, rinnegando quell’universalismo e quell’umanesimo che sono stati la sua ragione di vita e di grandezza. Quando si vedono, a Varsavia — nella Varsavia decenni fa distrutta dai nazisti — sciovinisti polacchi marciare agitando bandiere hitleriane e svastiche, è come vedere, a ventre aperto, un cancro che si diffonde aggressivo.
L’Occidente tramonta anche per un’altra ragione, solo apparentemente contrapposta. Muore perché si vergogna di sé stesso e dei propri valori più alti; muore per paura e per retorica, credendo stupidamente di far bene e facendo invece spesso il male, negando con i suoi comportamenti gli ideali che crede di affermare. La regressione, avanguardia della barbarie, assume talora il volto del politicamente corretto, come nel caso di quella giudice tedesca che ha assolto, parecchi mesi fa, un turco musulmano che aveva stuprato una donna, perché, ha detto, quell’azione rientrava nella sua cultura, senza accorgersi di offendere così tutti i musulmani, considerandoli implicitamente degli stupratori.
L’Occidente tramonta quando, come è accaduto qualche anno fa in Danimarca, le autorità — credo scolastiche — hanno censurato nei libri di testo (ad esempio in alcune favole di Andersen) i riferimenti e i motivi cristiani, per non offendere scolari, sempre più numerosi, di altre fedi. In tal modo hanno contribuito ad ostacolare il dialogo tra religioni e culture diverse, tanto più fecondo quanto più reciproco.
È augurabile che musulmani e buddhisti conoscano il Vangelo e noi i loro grandi libri sacri. Secoli fa Akbar il Grande, sultano di un vasto impero in cui vivevano induisti, cristiani, buddhisti, musulmani, fece tradurre, nelle diverse lingue dell’impero, i testi sacri delle varie confessioni, affinché tutti potessero conoscersi e lo Stato fosse quindi più unito e più saldo. Non si tratta di dissolvere tutto in una brodaglia informe ma di conoscersi e di arricchirsi nelle rispettive diversità.
Ma troppi si rivolgono non a grandi religioni universali e al loro dialogo — il Dalai Lama che commenta la Lettera di San Giacomo Apostolo — quanto alla loro scimmiottatura. L’Occidente tramonta ad esempio perché molti vegetariani, che si astengono dalle carni soprattutto nel nobile intento di risparmiare il più possibile sofferenze agli animali, diventano vegani, nel desiderio di essere una sorta di setta iniziatica piuttosto che una comunità.
L’Occidente muore di viltà travestita da mentalità aperta ed evoluta. Esita a punire adeguatamente gli autori di abiette violenze bulliste, i tifosi bestiali che si esaltano sfasciando bar e negozi e annullando così le fatiche di una vita di qualcuno, i dementi che sui social esaltano il nazista norvegese autore di un’orribile e plurima strage.
L’Occidente tramonta perché la «mezza cultura», tronfia e à la page, tiene banco; perché nessuno legge e tutti scrivono, naturalmente romanzi. Io non sono una casa editrice ma ricevo in media quattro o cinque dattiloscritti al giorno che mi si chiede di leggere, venti alla settimana, ottanta al mese. L’Occidente tramonta quando mi si chiede perché non ho letto Il Codice da Vinci, ignorando che occorre un motivo per fare una cosa, non per non farla. Non capisco perché nessuno, neanche chi conosce la mia passione per Dostoevskij, mi chieda perché non ho letto il suo romanzo La mite — in questo caso, a differenza che nel caso del Codice da Vinci, non mi si condanna per non aver trovato ancora il tempo, la voglia e la possibilità di farlo. Un simbolo e un momento del tramonto dell’Occidente è stata la circospetta paura dell’Unione Europea di inserire tra i propri fondamenti la civiltà cristiana o ebraico-cristiana. Non a caso l’Unione Europea, purtroppo, appare sempre più anchilosata, incerta, artificiale, povera di quella organicità senza la quale non c’è vera cultura. L’attuale Occidente talvolta assomiglia a quella stanca copia di sé stesso che Spengler, nelle sue esaltate fantasie profetiche, immaginava sarebbe comparsa a Est, tra la Vistola e la Mur, per poi scomparire.
Se l’Occidente tramonta, non è perché non ci siano più quei vichinghi temerari e brutali che piacevano tanto a Spengler; non tanto i vichinghi che sfidano l’oceano quanto i vichinghi che menano le mani in molti filmoni. Forse sorridere con rispetto e con molta distanza dall’eloquenza di Spengler può aiutare a riflettere, razionalmente e senza enfasi, sul brave new world, quel Mondo Nuovo, che Aldous Huxley, già nel 1932 ritraeva tecnologicamente apocalittico e nel quale ancora e sempre più viviamo.