Lo scrittore lombardo compirà 90 anni mercoledì prossimo e Guglielmi – critico letterario che i 90 li ha festeggiati lo scorso aprile – racconta al Fatto la parabola di un amico la cui voce “si è spenta”. Arbasino scrisse: “In Italia c’è un momento stregato in cui si passa dalla categoria di giovane promessa a quella di solito stronzo. Soltanto a pochi fortunati l’età concede poi di accedere alla dignità di venerato maestro”. Per stare alla sua stessa dissacrante etichetta, il nostro venerato maestro nasce a Voghera nel 1930 e trascorre un’infanzia “di guerra e di merda nelle campagne lombarde” per poi finire col mettere piede in ogni angolo del mondo e diventare un intellettuale cosmopolita. Romano d’adozione, frequenta negli anni 50 e ’60 quasi tutte le personalità della cultura e dello spettacolo tanto da ricavarne una sterminata antologia di ritratti, sempre sul filo di uno snobismo sottile. Un letterato tanto atipico e lontano dai clichè che la sua biografia contempla persino la conduzione televisiva.
Da ricordare almeno la trasmissione Match nel 1977 e una memorabile puntata che vide contrapposti Monicelli e un giovane Nanni Moretti. Un inclassificabile che ha sempre licenziato opere tanto innovative che persino la critica più militante si è dovuta arrendere, soverchiata dal suo genio di auto-esegeta. Da L’anonimo lombardo, romanzo epistolare con apparato di note, a La bella di Lodi, parodia di una storia da rotocalco da cui il film con protagonista Stefania Sandrelli, a Fratelli d’Italia, romanzo-conversazione che Raffaele Manica ha definito “enciclopedia della modernità”, a Super-Eliogabalo, testo surreale e a frammenti con infinite liste nominali su un moderno imperatore.
Non c’è nulla nell’opera di Arbasino che vanti una qualche parentela con altri autori di casa nostra. Questa fame di sperimentazione, di sovvertimento dei canoni, di insofferenza per il già visto, non poteva che trovare facile approdo in quella “rivoluzione di carta” che fu il Gruppo 63.
È vero che forse si ricorda la neoavanguardia solo per la taccia sprezzante di Liale con la quale bollò Bassani e Cassola, ma tocca riconoscere che da quella stagione di rottura uscirono autori che hanno contrassegnato la nostra storia letteraria, da Eco a Sanguineti, da Manganelli a Balestrini, fino appunto a Arbasino. L’esigenza di un “altrove” è suggellata dall’uscita, proprio quello stesso anno, nel 1963, di Fratelli d’Italia, la cui eredità, puntualizza ancora Guglielmi, “vive in Celati e in Tondelli, che riconobbe di avere tradotto il parlato in letteratura leggendo proprio Arbasino”.
“Oggi gli scrittori italiani cedono all’autobiografismo che altro non è se non il riparo di chi non sa che cosa sia scrivere” tuona Guglielmi e aggiunge: “È il limite di chi non sa che aggrapparsi alla propria soggettività e raccontarci le proprie vicende private”. La singolarità irriducibile di Arbasino resta sempre come scomoda pietra di paragone. “Che dire della celebre Gita a Chiasso?” si interroga Guglielmi e come appunto non ricordare quel celebre articolo in cui Arbasino invitava i nostri intellettuali a fare una gita “a due ore di bicicletta da Milano per sprovincializzarsi”.
I vizi del letterato italiano medio, sembra suggerire il critico, non sono più ravvisati nemmeno come tali. Se tanti altri scrittori sono immersi in un conformismo di categoria, ecco la battaglia costante di Arbasino contro le ideologie e i tic linguistici, contro la retorica e l’omologazione. Se tanti altri scrittori non osano oltrepassare l’asticella del romanzo canonico, ecco la capacità camaleontica di Arbasino di assorbire tutti i generi e di rielaborarli in uno stile personalissimo e inimitabile. Tutti i materiali – diari lettere conversazioni reportage – toccati dalla penna di Arbasino confluiscono in una “lingua-mondo come oggetto d’arte”.
Angelo Guglielmi ribadisce: “Fratelli d’Italia e prima ancora i racconti di Le piccole vacanze mostrano una scrittura nuova, precipitosa e anche slabbrata, ricca di odori sgradevoli e di rumori molesti. La natura del romanzo è oggettiva, è parlare di altro e di altri inventando una scrittura”. In effetti Arbasino, nipotino di Gadda, dalla lunga frequentazione con l’Ingegnere in blu ha ereditato l’ossessione patologica per la lingua, per una scrittura totalizzante. Arbasino è notoriamente l’autore che ha trasformato la sua bibliografia in un perenne work in progress, macerando le sue pagine di continue aggiunte e di riscritture.
Guglielmi ricorda quando taluni detrattori lamentarono l’oscurità dei pezzi di Arbasino su Repubblica. “Scalfari prese le sue difese, asserì che di ciò che scrivono i grandi scrittori gli unici responsabili sono loro stessi”.
Vero, perché la letteratura di Arbasino “non comunica, esiste. Fa concorrenza al mondo”.