Il primo film di Fellini che ho visto è stato La strada. Ricordo di aver avvertito in me una certa dualità: da una parte un distanziamento ideologico, nel senso che mi sono subito reso conto di quanto Fellini rappresentasse l’arresto del neorealismo italiano, ma nello stesso momento ho provato una forte commozione. La stessa commozione che provai più tardi, assistendo a Le notti di Cabiria. Al contrario, il simbolismo barocco de La dolce vita mi ha molto meno colpito, mi è arrivato meno potrei dire. Non è un film che amo. Per me comunque, il grande film di Fellini, il capolavoro senza filtro alcuno, rimane Otto e mezzo. Amarcord lo considero invece un po’ come il testamento di tutta la sua mitologia e simbologia. […]
Amo il Fellini del ricordo, anche se credo che il suo ricordare sia nato da una fatalità dell’età: quando un uomo arriva a cinquant’anni comincia sempre un viaggio stranissimo verso la fontana della sua vita, tanto che per spiegare a se stesso molte cose deve costruire come una collana di tutti i suoi miti, di tutti i suoi simboli. Da Otto e mezzo ad Amarcord per Fellini è stato come un processo di depurazione, ma anche una lenta riconciliazione. Otto e mezzo è un film durissimo, amaro, mentre Amarcord lo considero come l’accettazione di se stesso. […] Poi voglio accennare al Fellini dell’ultimo periodo. Ho trovato patetico Ginger e Fred. Terribile. Mi sarei sparato fossi stato lui. Ho trovato invece molto interessante L’intervista per il modo, evidente, di come un pretesto minore è stato convertito in un film. […] Ginger e Fred è come un testamento della sensibilità e della paura di morire, della possibilità di perdere la capacità di creare, in questo lo collocherei alla stessa stregua di The Dead di John Huston. Un film molto triste. La dolce vita arrivò in Spagna qualche tempo più tardi della sua uscita in Italia, dopo il caso Wilma Montesi, in cui era restato coinvolto Piero Piccioni. Noi già sapevamo troppe cose su quella storia. […] Da La dolce vita mi aspettavo una certa sincerità, un di più di sincerità; penso che sia, almeno inizialmente, un film troppo barocco, teatrale per così dire. Le sue donne enormi, eccessive, abbondanti, credo che siano una fissazione del modello di puttana degli anni ’30; sono convinto che la sua immaginazione erotica risalga proprio a quel periodo. Ne sono sicuro. La puttana è stata il simbolo dell’abbondanza per quei bambini che hanno visto la Saraghina, e questa fissazione del tipo di puttana abbondante è rimasta come un’ossessione in Fellini. Poi però succede una cosa curiosa: la figura della puttana abbondante diventa Giulietta Masina, che è invece come una piccola bimba. Ma esiste anche un terzo personaggio di donna che riscontro di frequente nei film di Fellini: la donna sentimentale ma stupida, come, per esempio, Sandra Milo in Otto e mezzo, oppure Dorian Gray ne Le notti di Cabiria. Io credo che questo tipo di personaggio sia una piccola vendetta di Fellini verso un certo tipo di donna che si incontra nel mondo del cinema. Da una parte la donna innocente, fragile, che è Cabiria, Giulietta degli spiriti, e dall’altra parte il mito della donna abbondante. In mezzo a questi estremi, l’oggetto di piacere bello ma stupido, consolatrice, se vogliamo, che è il tipo di Sandra Milo e di Dorian Gray per l’appunto. La logica interna di Fellini: il suo è un linguaggio iniziale, condizionato dai suoi miti personali, ma arriva un momento in cui comincia a indagare sui miti reali che l’hanno reso quello che è. A questo punto inizia il Fellini interessante. È una scoperta di se stesso attraverso i miti che non sono soltanto di se stesso, ma della sentimentalità di un’intera epoca. Fellini è un uomo che possiede una maniera di pensare, una logica di pensiero equivalente al collage: lui pensa attraverso un collage, attraverso un ricordo, un’impressione, una frase, una parola, un sapere concreto, e compone il suo film ad un ritmo di collage. Tutto si basa su una logica segreta. Fellini possiede un certo automatismo, ma è un automatismo controllato da una memoria, da un substrato personale insomma. Apparentemente è un fatto automatico, come per il cinema surrealista, ma non è vero nel profondo. Emerge sempre la logica interna che controlla tutto il suo mondo sotterraneo: i ricordi, la memoria, le ossessioni. La costruzione di un film, la sua stessa materializzazione, le sequenze concrete: tutto questo gli suggerisce altre storie che non sono ancora state scritte, ma che fanno parte sempre della logica interna del film. […]
Ancora un mito di Fellini, il circo. L’aspetto dell’esaltazione festiva, della partecipazione innocente con lo spettacolo, ma anche l’ambiguità terribile dei volti della gente, questo ruolo attribuito, dove tutto il mondo è sempre lo stesso, la maschera è sempre la stessa; non è come un attore che può diventare un giorno Amleto, un altro Macbeth. L’artista nel circo avrà sempre una maschera soltanto, eppure questa maschera diventerà la sua identità più chiara. Io credo che tutto ciò abbia sempre affascinato Fellini. La sua maschera è stata diventare Fellini. E così è capitato a tutti coloro che lo circondavano.