Philip Roth trentenne, seduto in poltrona con un bicchiere di vino in mano. 1965, New York, Greenwich Village. Inge Morath lo ritrae così, in bianco e nero, con uno sguardo inquieto e acuto e lui, stranamente docile, la lascia fare. Altrettanto belli i ritratti di Stravinsky (1959), Malraux, Calder. Quest’ultimo fotografato in più riprese nel suo studio: piccola figurina immersa nel grande stanzone a vetri nel quale oscillano appese ovunque, le sculture volanti. E poi lo sguardo ironico di Harold Pinter (1986), Allen Ginsberg pensoso e assorto (1986) o Louise Bourgeois che sorride seduta davanti ad un suo grande orecchio in marmo (New York, 1990). Infine i due uomini importanti nella vita di Inge: Henry Cartier-Bresson, mentore fondamentale per i primi anni da fotografa, con un meraviglioso completo di grisaille e Arthur Miller, marito e compagno di viaggi memorabili.
LA SEZIONE dedicata ai ritratti fotografici di scrittori ed artisti è solo una delle tante parti di Inge Morath. La vita. La fotografia, al Museo di Roma in Trastevere fino al 19 gennaio. Effettuare una selezione nella sterminata produzione della fotografa non era semplice eppure la mostra riesce a dare una visione ampia e articolata del suo lavoro. Figlia di scienziati, Inge nasce a Graz e fin da piccola si abitua a cambiare spesso città: Berlino, Friburgo, Francia, nuovamente Germania, poi Romania, di nuovo Austria. Le lingue diventano un lasciapassare mentale che Morath avrà sempre ben presente anche quando il reportage sarà da farsi in Russia e in Cina. Studierà, preparandosi con scrupolo, cinese e russo (anche il rumeno, per le fotografie sul delta del Danubio, era lingua a lei ben nota).
A VIENNA, negli anni quaranta, incontra Haas e Inge, che è anche traduttrice, scrive articoli che accompagnano le foto di Ernst. Quando nel 1949 Robert Capa li chiama a far parte dell’appena fondata sede parigina di Magnum si apre per lei uno scenario straordinariamente ricco di stimoli e opportunità. Lavora, da assistente, a fianco di Cartier-Bresson, per esempio valutandone i provini a contatto («…il provino a contatto è molto interessante – dice Cartier-Bresson – perché fa vedere come pensa il fotografo») e inizia a viaggiare, dapprima con lui, poi da sola. Un reportage sui preti operai in Inghilterra diventa il viatico per entrare a far parte di Magnum come fotografa: Capa la accetta in agenzia come socia potenziale.
DALLA METÀ degli anni ’50 inizia per Morath il susseguirsi denso e intenso di viaggi-reportage nei quali il suo occhio diviene senpre più attento all’aspetto antropologico ed etnografico dei mondi che vede. La fiera di Puck a Killorglin diviene pretesto per fotografare i carri colorati dei gitani d’Irlanda e in Irlanda Inge farà anche bellissime fotografie all’amico John Huston mentre balla in casa propria qualche danza popolare. Del 1956 è il primo viaggio in Iran durante il quale Morath ritrae – alla ricerca dell’Iran pre-islamico – piccoli gruppi di Zoroastriani presso il cipresso sacro a Chum, nomadi a Pasargade, l’Apadana a Persepoli ma anche spaccati di vita occidentale presso la raffineria di Abadan, con i circoli sportivi esclusivi frequentati dai dipendenti della Anglo-Persian Oil Company.
Con Huston, e sul set di The misfits, conosce Arthur Miller fotografandolo con Marilyn nella suite del Maple Hotel di Reno: la coppia si sta sfaldando, gli sguardi sono malinconici e Marylin arriva sempre tardi sul set, sempre ormai frastornata, spesso triste. Bellissima con Clark Gable, seduti ad un tavolino, in una pausa delle riprese: lui la guarda, gentilmente, sorridendo (lei si scusava sempre per il ritardo e pare che lui gli rispondesse «…You’re not late, honey»). Miller fra l’altro diventa compagno di Morath, avranno due figli e faranno anche alcuni viaggi straordinari.
PRIMA DI ANDARE IN CINA con Arthur (1978-1979), lei studia a dovere il mandarino, una lingua che continuerà a studiare per tutta la vita. Nonostante questo però, sia lei che Miller, si sentono qui comunque degli outsiders e lei si troverà in seguito a raccontare quanto fosse stato difficile catturare davvero la luce asiatica. Ci saranno poi la Russia e l’idea di fotografare tutto il Danubio nel suo percorso fino al delta, un percorso fatto di paesi, etnie, confini. Come quando in Romania non si accontenta di ritrarre gli spettatori di una partita di calcio a Bucarest o bambine che danzano nel Palazzo dei Pionieri o la mensa degli operai nella fabbrica di tessuti a Gheoghiu-Dej: arriva fino a Certeze – un piccolo villaggio sul confine con l’Ucraina – per fotografare uomini con le vesti tradizionali. Sempre in cerca non di quel che è evidente ma di quello che luccica meno.