Come ricordare Robert Frank, uno degli sguardi più profondi e poetici del Novecento, colui che ha cambiato radicalmente la fotografia, lo spartiacque dopo il quale non si è più guardato al mondo come prima?
Con una di quelle sintesi che hanno lo stato di grazia, Roberta Valtorta scrive: “Sfugge nel modo più assoluto alla nozione classica di reportage l’opera di Robert Frank, il suo linguaggio ruvido e disadorno, fragile come la società che indaga, uomini e luoghi di una quotidianità anche macchiata di vuoti, di grigi, anche ripetitiva, insignificante, sgravata dalla necessità di “momenti decisivi” e dall’obbligo di un trionfale, smagliante racconto, nel dubbio anzi che vi sia possibilità di raccontare.” (La fotografia dei luoghi come fotografia).
Con la produzione di Robert Frank siamo, dunque, al di là della fotografia umanistica, oltre la sua pretesa di dominare la realtà, di padroneggiarla con la poetica del “momento decisivo” e di catturare l’uomo stabilmente immerso nel suo contesto. Le immagini di The Americans, con la loro instabilità e imperfezione, avviano invece “un processo di segno liberatorio”, che conduce la fotografia verso la contemporaneità.
Parade Hoboken, New Jersey, 1955 |
La storia è nota. Nel 1955 il giovane Frank ottiene una borsa di studio dalla Fondazione John Simon Guggenheim per realizzare un lavoro fotografico sull’America. Per due anni, tra il 1955 e il 1956, percorre il paese attraversando molti stati. Strade, volti, città, bar, negozi, marciapiedi, un lunghissimo viaggio, un immenso reportage. Quando fa ritorno a New York, si ritrova alle prese con 767 rullini di pellicola. Dopo una prima selezione di circa un migliaio di immagini, finisce per sceglierne, in un processo di scrematura lungo un anno e mezzo, soltanto 83 che vengono pubblicate in volume dapprima in Francia, poi anche negli Stati Uniti con il titolo di The Americans, accompagnato da un testo di Jack Kerouac.
Nel 1971, parlando del lavoro raccolto nel libro, Frank racconta: “per la maggior parte del tempo sono stato in assoluto silenzio, camminando attraverso il paesaggio, attraverso la città fotografando e andandomene via. (…) Quel che mi piaceva della fotografia era precisamente questo: che potevo andare via e stare zitto, fare tutto molto rapidamente senza coinvolgimento diretto”.
In queste parole ritroviamo l’essenza delle sue fotografie, che fanno del libro una narrazione on the road, con pause, riprese e variazioni, sviluppi, accelerazioni e ritmi che la accostano alla musica jazz e alla nuova narrativa americana della Beat Generation, e qualche volta alla malinconia di una ballata country. Ci vengono in aiuto le bellissime parole di Kerouac, in quella prefazione che è un omaggio sentito al lavoro di chi ha saputo estrarre “una poesia triste dal cuore dell’America” e per questo “è entrato a fare parte della compagnia dei grandi poeti tragici del mondo”:
“Quella folle sensazione in America, quando il sole picchia forte sulle strade e ti arriva la musica di un jukebox o quella di un funerale che passa. È questo che ha catturato Robert Frank nelle formidabili foto scattate durante il lungo viaggio (…) attraverso qualcosa come quarantotto stati su una vecchia macchina di seconda mano. Con l’agilità, il mistero, il genio, la tristezza e lo strano riserbo di un’ombra ha fotografato scene mai viste prima su pellicola. Per questo Frank sarà riconosciuto come un grande della fotografia. Dopo che hai visto quelle immagini finisci per non sapere se sia più triste un jukebox o una bara.”
RBar, Las Vegas, Nevada |
La fotografia di Frank rimette in discussione la concezione del fotoreportage, sia nella forma che nei contenuti.
Lo stile è lontano dalla compostezza ordinata del documentarismo sociale e dall’armonia della composizione classica. L’apparente banalità delle situazioni riprese fanno sembrare le immagini del tutto casuali, in aperta sfida con le regole formali consolidate dalle storiche riviste di Life o Time. Il taglio inconsueto, la composizione squilibrata, la sfocatura, il mosso, la scarsa illuminazione, l’esposizione piatta fanno sì che quelle di Frank non siano mai “belle” fotografie, conferendo loro piuttosto una certa instabilità, un senso di perenne incompiutezza e accidentalità. Ma, soprattutto, tali cifre stilistiche fanno penetrare nella visione la stessa soggettività dell’autore: è il suo sguardo posato sulle cose ad essere sfocato e instabile, dando alla fotografia il carattere di un’esperienza interiore.
Bar – Gallup, New Mexico, novembre 1955 |
Si veda, ad esempio, l’immagine nr.29, quella intitolata Bar – Gallup, New Mexico, che porta la data novembre 1955. Si vede l’interno di un locale e un gruppo di avventori, con al centro un uomo con il cappello da cowboy e le mani nelle tasche. L’immagine ha un taglio obliquo, è sfocata e per metà è occupata da una sagoma scura in primo piano. Ciò che ci colpisce è la tensione che si sprigiona tra quelli che intuiamo essere due gruppi distinti di persone, come nell’imminenza di un duello tra cowboy, con una luce al neon che riporta la scena a certe atmosfere cinematografiche. Ma il punto di vista basso, il taglio diagonale e l’inquadratura sfocata testimoniano anche il disagio del fotografo, il suo sguardo clandestino, la sua presenza estranea in un paese che non conosce e che, probabilmente, lo guarda con diffidenza.
L’innovazione del linguaggio fotografico è radicale. Se per Cartier-Bresson esistono una geometria e una tempistica perfette, per Frank la fotografia rispetta il vuoto e il nonsenso dei fatti, catturando immagini in cui non si dà un evento saliente che attiri l’attenzione. Le foto hanno solo brevissime didascalie. Si rigettano le spiegazioni, ci si appella al mostrare e non al dire. La singola fotografia non resta confinata nei bordi: quello che importa veramente è il legame che si crea tra le immagini, il tessuto narrativo generato dalla loro sequenza nel libro, inteso come unità di senso.
Elevator – Miami Beach, 1955. |
In The Americans ognuna delle fotografie ha un significato indipendente e allo stesso tempo nessuna di queste immagini esaurisce completamente il proprio discorso in se stessa, ma acquista ulteriore senso una volta che è messa in relazione con altre immagini, ad essa legate da rimandi sia di tipo formale e compositivo che del contenuto. Non si tratta, tuttavia, della narratività lineare e immediata dei reportage tipici del tempo, che riempiono le pagine di riviste come Life. Quella di Frank è una narrazione frammentaria e discontinua, che procede per salti e che provoca domande più che fornire affermazioni; un racconto per immagini la cui difficoltà di lettura richiede tempi lunghi di visione, per ricomporre le relazioni latenti e i rimandi di significato che come delle eco visuali si riverberano nelle pagine del libro.
New York City Candy Store, 86th Street, 1955 |
Dal punto di vista dei contenuti, l’obiettivo di Frank si rivolge a quella realtà che generalmente restava ignorata perché apparentemente banale e insignificante. Come quella di Walker Evans, la sua fotografia offre una visione “al margine” dell’America del suo tempo, l’altra faccia della medaglia del sogno americano, lontana dagli stereotipi e piena di insanabili contraddizioni; un’immagine allora insolita, fatta di stazioni di servizio, locali, sobborghi abitati da vagabondi e da personaggi disillusi e frustrati dall’American Dream.
The Americans ripudia l’ottimismo patinato delle riviste e dei discorsi di propaganda ideologica (siamo in un paese immerso nella paranoia della minaccia del comunismo e nella paura della guerra fredda) offrendo l’immagine di una nazione che vive profondi contrasti e fratture. Basterebbe fermarsi alla fotografia della copertina del libro (Tram, New Orleans) per avere innanzi agli occhi un universo composito e contraddittorio, e non solo per via delle diverse etnie che si affacciano dai finestrini, ordinate secondo le regole violente della discriminazione razziale, ma anche per la stratificazione della composizione su più piani e per via di quei giochi di riflessi e di riverberi in alto e in basso dell’immagine che rendono impossibile distinguere nettamente ciò che è reale da ciò che è effimero, impedendo all’osservatore di rivolgere all’immagine una domanda precisa.
Trolly – New Orleans, 1955. |
La street photography di Robert Frank si affranca dal legame esclusivo con il contesto urbano e si avventura lungo le interminabili autostrade fin nei sobborghi sperduti della Nazione. Se il pubblico dell’epoca poteva essere relativamente avvezzo alla crudezza delle scene metropolitane, assai più disturbante doveva risultare un’immagine tanto disincantata dell’America suburbana, provinciale e rurale, l’interno profondo del Paese, che si immaginava più “innocente”, depositario di sani valori morali e di patriottismo, e si scopre invece luogo di disagio, sofferenza e profonde disuguaglianze.
Il mettere a fuoco in modo dimesso e distaccato le icone d’America – juke-box, bandiere, automobili, pompe di benzina, highways, cerimonie religiose, cowboy – per porle in sequenza con l’alienazione dell’individuo, il conformismo, la morte o la segregazione razziale, costituiva una novità rivoluzionaria. E fu per questo che in America il libro di Frank, subito dopo la pubblicazione, venne stroncato dalla critica e il suo autore venne tacciato di antiamericanismo.
Railroad Station, Memphis. 1955 |
Rodeo, New York City |
Le parole di Mulas a proposito di Frank – “lavora direttamente sulla vita, usando la pelle della gente” -, forse sono le più adeguate ad esprimere la sua opera. Ma non ne danno una visione completa. Perché Robert Frank è un fotografo che si assume sempre il rischio di mettersi in gioco come soggetto all’interno dell’atto fotografico, il quale si configura pertanto come un’esperienza introspettiva a tutti gli effetti. Questo riposiziona l’idea del reportage fotografico, decostruendone la tradizionale pretesa di oggettività e conferendogli una soggettività inedita, che lo trasforma in un viaggio iniziatico alla ricerca di un’identità, non solo di un Paese ma anche di se stessi.
Passando in rassegna migliaia di fotografie realizzate in uno spazio vastissimo, posandosi su luoghi, oggetti e momenti banali e apparentemente privi di interesse, l’occhio di Frank è riuscito a mettere insieme il quotidiano e l’imprevisto, evidenziando quegli aspetti comuni di una nazione in grado di presentarla come un insieme omogeneo e nello stesso tempo contraddittorio, trasformandoli in simboli sui quali costruire l’identità di un Paese che sta espandendo la propria way of life in tutto il mondo. Una fotografia tra passato e futuro, dunque, il cui fascino perturbante è ben rappresentato dal solitario cowboy metropolitano, sradicato dal suo contesto tradizionale, simulacro vivente e simbolo di quella memoria fondativa su cui l’America ha da sempre cercato di costruire la propria storia di gloria e di avventura.
Tennessee. 1955 |