Anteprima Esce domani «Il tramonto dell’avvenire» (Marsilio). Una serie di occasioni mancate, a cominciare dal 1956
La sinistra non è finita ma deve voltare pagina. L’analisi di Paolo Franchi
di Walter Veltroni
Leggere in questi giorni il bel libro di Paolo Franchi Il tramonto dell’avvenire. Breve ma veridica storia della sinistra italiana, edito da Marsilio, provoca una sensazione di straniamento. Per l’Enciclopedia Treccani questa parola corrisponde a «effetto di sconvolgimento della percezione abituale della realtà, al fine di rivelarne aspetti nuovi o inconsueti». Questo vale per la teoria letteraria, ma si attaglia benissimo alla condizione di chi ha vissuto, creduto, o semplicemente osservato la storia grande e tragica di quella somma di valori e di idee che siamo abituati a chiamare «sinistra». Questa definizione nasce dalla scelta dei rappresentanti più radicali del popolo di sedersi da quella parte alla convocazione degli Stati generali, nel 1789. Racconta Michel Vovelle che nel corteo pubblico dei rappresentanti degli Stati generali, dopo il clero e la nobiltà, sfilavano i rappresentanti del Terzo Stato «umilmente vestiti di nero». È perché il popolo non dovesse essere più al terzo posto della gerarchia sociale e non dovesse più vestire il nero della subordinazione che è esistita, nella storia, quella congerie di idee, programmi, valori che siamo soliti definire sinistra.
La sinistra ha avuto un rapporto conflittuale, ecco la pianta velenosa, con la libertà degli umani. Quando la lotta per l’emancipazione degli uomini e la loro libertà sono entrate in conflitto si sono scritte pagine sanguinose della vicenda umana. I gulag, le purghe, la tragedia ungherese, l’invasione della Cecoslovacchia sono la punta dell’iceberg di modelli ideologici e politici fondati sul partito unico, la negazione del pluralismo politico e ideale, sulla obbedienza come valore, sull’autoritarismo. È la storia dei Paesi i cui sistemi furono edificati in nome di qualcosa che fu chiamato «socialismo». Ma la stessa parola fioriva sulla bocca di Willy Brandt e di Olof Palme, di Giacomo Matteotti e di Carlo e Nello Rosselli. E significava «libertà».
Il libro di Franchi, un bel libro, racconta la storia delle alterne vicende della sinistra italiana partendo dal 1976. Questa datazione corrisponde alla particolarità del sincero lavoro di ricostruzione al quale Franchi ha dedicato non solo la sua competenza, ma molta parte della passione civile e del coinvolgimento personale che legano la sua vicenda umana a quel grumo di idee e di persone che hanno condotto o attraversato la storia di partiti e movimenti della sinistra.
In questo libro «il privato è politico», perché Franchi, con onestà intellettuale, non mette da parte le sue idee, le sue convinzioni e anche le ferite dalle quali fu segnata la sua esperienza politica nella organizzazione giovanile comunista. Il testo è, persino nella sua struttura di racconto, un convincente intreccio di dati oggettivi, opinioni personali, testimonianza «dall’interno». Questo rende ricostruzioni e giudizi certamente opinabili, ma non arbitrari.
La storia del volume, per queste ragioni, non comincia dove, secondo me, inizia la fine. Dalla tragedia dell’Ungheria del 1956. E dalla scelta del Pci di Togliatti di «stare da una parte della barricata».
I verbali della direzione comunista sul tema sono illuminanti. Togliatti sentenziò: «Si sta con la propria parte anche quando questa sbaglia». Di Vittorio, preoccupato anche dell’unità di socialisti e comunisti nella sua Cgil, disse, sfidando il Migliore: «Dopo alcuni giorni dall’inizio del movimento è apparso che non si tratta di un putsch, ma di larghe masse in azione. Facendo senz’altro nostra l’idea che chi ha preso le armi era controrivoluzionario commettevamo un errore e non si convinceva nessuno. Non ha convinto neanche me. Possiamo sfidare una parte della classe operaia?». Alla discussione partecipava anche il giovane segretario della Fgci, Berlinguer, che, sottraendosi all’idea del semplice complotto anticomunista, disse: «In Ungheria c’è stata un’esplosione di malcontento popolare e ciò esige di spiegarne le cause. Quel partito si è sfasciato». E poi si schierò a favore della pubblicazione della lettera dei 101 intellettuali di area comunista che criticavano radicalmente l’intervento. Togliatti replicò secco: «La lettera non si deve pubblicare, perché già data alla stampa borghese».
E invece avevano ragione i 101 e torto il Pci. Se, in quel momento il Pci, che ne aveva la possibilità culturale — data dal pensiero gramsciano — e quella politica — data dall’esperienza unitaria della Resistenza, del sindacato, delle giunte rosse — avesse avuto il coraggio di rompere l’ appartenenza al campo ideologico, si sarebbero create le condizioni, con Nenni, per la nascita del grande partito del socialismo liberale che l’Italia non ha avuto.
È questo il tema del libro di Franchi: come mai la sinistra italiana che, unita, non aveva una forza elettorale inferiore a quella della Dc, non ha mai scelto la via della convergenza delle proprie diversità?
Quella tra socialisti e comunisti è la storia di una «conversazione continuamente interrotta». Quando il Pci parlava di compromesso storico, il Psi era sulla linea dell’alternativa; quando poi, dopo la morte di Moro, Berlinguer scelse la prospettiva di uno schieramento «altro» dal partito di maggioranza relativa, il Psi di Craxi si infilò, restandone imbrigliato, nella tela di ragno del pentapartito. E così, quel 40 per cento, che insieme viveva nelle organizzazioni di massa e nelle amministrazioni locali, non arrivò mai a spendere le sue possibilità nel confronto politico nazionale. Pesarono reciproci sospetti e legittimi desideri di autonomia. Ma forse era già tardi. Il treno era passato venti anni prima di quel 1976 da cui Franchi parte.
Berlinguer non pensava «che si dovesse stare dalla propria parte anche quando si sbaglia» e interruppe i finanziamenti dal Pcus, condannò il golpe in Polonia e l’intervento in Afghanistan e si disse più sicuro sotto l’ombrello della Nato che sotto quello del Patto di Varsavia. In quegli stessi anni il Psi maturava una lettura innovativa sul piano istituzionale, la democrazia governante e, a Rimini, parlava di alleanza tra «merito e bisogno». Due innovazioni che non si incrociarono mai.
Scelta fatale Togliatti appoggiò l’intervento militare sovietico in Ungheria creando una spaccatura con il Psi Occhetto, del quale secondo me solo la storia apprezzerà il coraggio, andò oltre e, trasformandolo, mise in sicurezza un patrimonio che altrimenti si sarebbe dissipato. Ma in quegli anni, Franchi lo descrive bene, la spinta innovativa del nuovo corso socialista era intanto implosa in un apparato che la contraddiceva. Ancora un appuntamento mancato. Socialisti e comunisti, guardando alla storia di quegli anni, hanno ragioni, il tempo aiuta a farlo, per riconoscere i propri integralismi e le proprie furbizie. Nessuno ha avuto ragione, se — diversamente da Francia, Germania e Spagna — la sinistra non ha mai governato, insieme, questo Paese. L’autore del libro ricorda, ne aveva parlato Formica con me in una recente intervista, l’impressione che fece a Craxi il modo in cui, mentre faceva a Praga una scritta su un muro in favore del socialismo — quello della libertà — fu apostrofato da qualcuno che gli fece capire che, sotto il muro del 1989, era rimasto non solo il comunismo, ma, forse, anche l’idea stessa del socialismo. Bisognava tenere i valori della sinistra, nel nuovo millennio, ma depurandoli del riferimento alla storia del Novecento. Per questo lo straniamento della lettura del libro nasce dal panorama del nostro tempo: la sinistra socialista ai minimi termini in Germania, in Francia, nel Nord Europa delle socialdemocrazie, in Grecia, nell’America Latina.. E poi Trump, Johnson, i neonazisti che riemergono… Un tema, l’ecologia, che la sinistra non riesce a declinare. La sinistra, tutta, fatica a trovare le parole giuste per un mondo che, in poco tempo, ha capovolto i paradigmi della società del Novecento. Ma starei attento a dire che non esiste più. Affermazione che spesso si accompagna, semplicisticamente e simmetricamente, all’idea che neanche la destra sia più tra noi. Il che non appare rispondente al vero. Continuo, con Franchi, a pensare che quella differenza esista. C’era al tempo di Spartaco, c’è nel tempo degli algoritmi.