Ian McEwan “Siamo uomini o digitali?”

I robot sono tra noi, ci guardano, parlano con noi E solo un romanziere può dirci che cosa fare
di Enrico Franceschini
Pecore. Mucche. Cavalli. Fattorie, campi di grano e dolci colline. Un villaggio di 400 anime, con un pub del 1865 e una chiesetta del Medioevo. Il proverbiale countryside inglese. Per la precisione, i Cotswolds, l’equivalente per Londra degli Hamptons per New York: il posto in cui gli abitanti della capitale, se possono, hanno la “seconda casa” o a un certo punto si trasferiscono per un’esistenza più bucolica e tranquilla. Arrivarci in un pomeriggio inondato di sole per parlare con Ian McEwan di un romanzo fantascientifico che ha per protagonista un robot, Macchine come noi, pubblicato in Italia da Einaudi (l’autore lo presenterà al Festivaletteratura di Mantova), fa una strana impressione: la grande casa di pietra circondata di boschi in cui ora vive lo scrittore sembra lontana anni luce dal mondo degli androidi. Eppure, un ritratto di Darwin appeso davanti a una delle due scrivanie dello studio, quella su cui McEwan lavora al computer ( sull’altra, più piccola, verga la prima stesura a mano), suggerisce un’armonia tra il circostante panorama agreste e la fantasia futuristica del suo nuovo libro: in fondo, come nel prologo di 2001: Odissea nello spazio, sono soltanto due fasi dell’evoluzione della specie.
Lei era un “city boy”, un ragazzo di città, anzi di una delle più grandi città della terra: come si sente in campagna?
«In realtà sono cresciuto in Estremo Oriente e in Nord Africa, seguendo mio padre, militare di carriera, e poi a 12 anni i genitori mi hanno spedito in una boarding school del Suffolk, cui ha fatto seguito l’università nel Sussex, perciò fino alla laurea non avevo grande familiarità con Londra.
Ma a quel punto mi ci sono trasferito ed è diventata la mia città, fino a sette anni or sono quando ho venduto la casa che avevo a Fitzrovia (il quartiere londinese di fianco vicino al British Museum, ndr) e sono venuto qui».
Era stanco di Londra?
«Di Londra non ci si può stancare, a meno di essere stanchi della vita stessa, come afferma la celebre frase. Ma suppongo che il trasferimento sia stato un inconscio preparativo per un ultimo atto, per una vita più contemplativa. Sebbene non in solitudine: scopri che un sacco di gente è felice di venire a trovarti, se hai una grande casa in campagna, inclusi figli e nipoti. Questi ultimi, in particolare, ora che ho 71 anni diventano più importanti».
Scrive meglio, nella quiete e nel silenzio?
«Non ci sono le sirene di ambulanze, polizia e pompieri, che attraversano senza sosta Londra. E non suona quasi mai il telefono. Ma questo non dipende da dove vivi. Negli anni Settanta, il telefono suonava di continuo. Ora non più, comunichiamo con email, messaggini e Whatsapp. Ritirarsi in campagna, del resto, oggi non significa più isolarsi: internet ci tiene collegati no stop con tutti e con tutto».
Le manca Londra?
«Ci vado spesso, è a un’ora e mezzo di treno e con mia moglie vi abbiamo tenuto un piccolo punto d’appoggio. Il mio amore per Londra è immutato.
Com’è noto, ho votato contro la Brexit, e ritengo che Londra, pur con tutti i suoi problemi, sia uno dei migliori esempi di diversità razziale sul pianeta, dove gente di ogni lingua, cultura e religione convive relativamente bene».
Entrare nella casa di uno scrittore è sempre interessante. Ma è anche un’intrusione.
Provando ad abbattere il corrispettivo della quarta parete televisiva, posso chiederle se le fa piacere accogliere un giornalista?
«Lo faccio molto raramente. E solo con i giornalisti del continente. I giornali inglesi sono poco rispettosi della privacy».
Per restare in argomento, si annoia a promuovere i suoi libri con interviste, presentazioni, dibattiti?
«Se lo faccio troppo, comincio a detestarmi.
Scrivere libri e parlare dei libri che uno scrive sono due attività contrastanti. Ma talvolta andare in giro a presentare libri e incontrare lettori è divertente».
Era meglio nell’Ottocento, da questo punto di vista?
«Non necessariamente. Victor Hugo e Charles Dickens sono stati probabilmente gli inventori del marketing della letteratura. Nel Novecento ci fu una fase, in particolare per alcuni autori, in cui l’esposizione ai lettori era vicina a zero: penso a T.S. Eliot, Samuel Beckett, James Joyce. Altri, come Hemingway, non si sottraevano a una certa dose di pubblicità. Ma è innegabile che festival e incontri letterari si siano moltiplicati. Il fenomeno ha duplici conseguenze».
Una è che gli scrittori passano più tempo a pubblicizzare i libri e meno a svolgere un ruolo pubblico? È in declino la figura dell’intellettuale impegnato?
«Ci sono scrittori che conducono una vita molto ritirata e per conto mio devono essere liberi di farlo. Viceversa, quando sono stato in Israele, tutti gli scrittori e gli intellettuali che ho conosciuto non facevano altro che parlare del conflitto israeliano-palestinese: anzi della “situazione”, come lo definivano senza bisogno di specificare.
Ammiro Bernard Henri-Levy che è praticamente impegnato su ogni causa da una vita. E in Gran Bretagna ci sono scrittori come Jonathan Coe, John Lanchester, James Meek, un po’ tutto il gruppo legato alla London Review of Books, che conducono importanti campagne politiche. Io sono meno politicizzato, non milito in alcun partito, non penso che uno scrittore debba sempre cercare di incidere sulla realtà».
Sulla Brexit, tuttavia, una sua battuta passerà alla storia: «Basta aspettare che i vecchi muoiano e un secondo referendum avrà un risultato diverso dal primo».
« Sa come mi è venuta in mente? Mia moglie fa da sempre volontariato in un ospizio. Quando la Gran Bretagna abbandonò il sistema imperiale per introdurre il sistema metrico decimale, gli anziani ospiti si lamentavano con lei dicendo: ” Non potevano aspettare che morissimo, per cambiare sistema?”.
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