Per celebrare la festa della Repubblica Italiana, infatti, il Quirinale si è fatto “contemporaneo”, assecondando l’innovativo progetto di Mattarella di superare l’idea del Palazzo come statico museo di se stesso, «per offrire invece la visione di un luogo evocativo, capace di mostrare l’Italia attraverso le vestigia del passato, ma anche le energie del presente».
Alla stratificazione di quadri, mobili e sculture, ferma all’epoca dei Savoia, si aggiungono dunque questi primi sessantotto inserti di contemporaneità: per colmare una lacuna che confinava il palazzo nel suo augusto, ma lontano passato e per testimoniare quella che il Presidente ha definito l’«arte repubblicana», cioè la produzione d’arte e di design che ha caratterizzato la via italiana alla democrazia nel dopoguerra e la vivacità dell’impegno di artigiani e industriali nel rilanciare l’immagine di un paese sconfitto dalla guerra ,ma vittorioso nella pace. Un messaggio, quello di Mattarella, che riecheggia fedelmente la fiducia nell’italianità che aveva sostenuto incessantemente Gio Ponti quando, negli anni cupi dei bombardamenti di guerra, scriveva: «Siamo in guerra e parliamo d’arte».
L’esempio italiano ha qualche precedente negli anni recenti della nuova storia d’Europa: negli anni ’80 il presidente francese Mitterand aveva chiamato l’allora esordiente talento di Philippe Starck per arredare i suoi uffici all’Eliseo, e, ancora più recentemente, il neopresidente della repubblica Ceca, il poeta e drammaturgo Vàclav Havel, aveva chiesto all’artista e designer Borek Sipek di intervenire con alcuni suoi lavori nel castello di Praga, l’equivalente boemo del nostro Quirinale. In entrambi i casi però, si trattava di un rapporto diretto e quasi fiduciario tra un committente e un artista. A Roma, invece, il progetto è più organico e complesso, è l’incipit insomma di un’operazione che avvia una riconsiderazione dell’intero patrimonio nazionale, nella convinzione che l’heritage si conserva solo se si ricrea continuamente e che il lavoro dei contemporanei sarà sicuramente l’heritage di domani.
Il Quirinale si avvia insomma a diventare un museo in fieri, una sorta di trama collettiva dove sempre nuove opere d’ingegno saranno chiamate ad entrare in dialogo col passato, traghettandolo con entusiasmo nel presente: i visitatori che oggi si troveranno accolti dal grande Disco in forma di rosa del deserto di Arnaldo Pomodoro o dalle traforate lastre di Piero Consagra installate nel cortile d’ingresso , si renderanno subito conto del transfer vitale tra nuovo ed antico che li aspetta inoltrandosi nelle suntuose sale di ricevimento e di lavoro. L’esile poesia meccanica del tavolo Frate, disegnato da Enzo Mari per la Driade, segnala il punto di benvenuto nell’atrio accoglienza dei visitatori: la sua scabra struttura di ferro e di vetro sembra quasi dar un nuovo valore al fasto dei pavimenti di marmo, delle porte monumentali e delle volte affrescate. Un cortocircuito che funziona per contrasti e per analogie. Il “concetto spaziale“ su treppiede di Lucio Fontana in metallo laccato nero spicca nella prima sala di rappresentanza come un dispositivo lunare; le poltrone Proust di Alessandro Mendini, nella versione prodotta da Cappellini, appaiono invece come lasciti di un tempo indefinito, con il gentile decoro pointilliste che quasi sbalza fuori dai rivestimenti damascati della Sala del Belvedere. La sequenza è notevole: ci sono i tavoli Arabesco di Carlo Mollino,le poltrone D 154 di Gio Ponti insieme all’onirico Trumeau in bianco e nero di Piero Fornasetti o la cassettiera Carteggio di Aldo Rossi, austera e familiare come le ottocentesche gouaches sulle pareti della Sala della Pace.
Nelle intenzioni di Renata Cristina Mazzantini – la curatrice che ha operato la scelta e la collocazione delle opere – c’era infatti quella di non creare allestimenti ad hoc , di evitare i contrasti troppo stridenti tra stili lontani e , per il design, di accogliere solo opere ancora in produzione. Si sono infiltrati così , tra gli arredi esistenti, molte icone del made in Italy alle più diverse scale: la lampada Biagio di Tobia Scarpa, l’Arco di Achille Castiglioni , la Z 275 di Marco Zanuso, la Flute Magnum di Franco Raggi e l’Atollo di Vico Magistretti, insieme ai Feltri di Gaetano Pesce, i tavolini di Angelo Mangiarotti , di Franco Albini, di Antonio Citterio, eccetera.
Presenze importanti ma quasi furtive, infiltrati d’onore tra gli arredi esistenti: non tanto nuovi trofei da aggiungersi agli antichi, ma compagni d’uso per la vita quotidiana del palazzo.
Per realizzare Quirinale contemporaneo inoltre «nessun museo è stato “depredato”- come ha ricordato il segretario generale Zampetti – le opere concesse appartengono appunto agli artisti o agli eredi o alle Fondazioni a loro intitolate. Analogamente gli oggetti di design, tutti pensati da architetti italiani e realizzati da imprese italiane, sono stati donati dalle aziende che li producono». Per chi non avesse in programma una prossima visita, un’utile guida è stata pubblicata da Treccani; illustrata dalle belle fotografie di Massimo Listri, è un ottimo itinerario di viaggio, spiegato, artista per artista, stanza per stanza, arredo per arredo, da una sintetica scheda con la descrizione dell’opera e la biografia dell’autore.
Fulvio Irace