La caratteristica che torna più spesso nei racconti su Fabrizio Palermo è la competenza, poi dopo però molti notano le assenze. L’uomo di 46 anni che martedì verrà nominato amministratore delegato di Cassa depositi e prestiti (salvo sorprese) ha lasciato in tutti coloro che hanno lavorato con lui il ricordo di un manager duro, deciso e tecnicamente capace. Eppure, benché fosse il capo della finanza, nel palazzo risorgimentale di Cdp dietro piazza Indipendenza negli ultimi mesi lo si è visto poco. Era preso, pare, dai contatti con il mondo politico: il centrodestra prima del voto del 4 marzo, finché sembrava che quella dovesse risultare la coalizione vincente; con M5S dopo, quando il Movimento è uscito dalle urne con oltre il 32%.
Si trovano a Roma grand commis della politica economica che non chiedono, non sollecitano, non si vedono in giro perché non vogliono debiti verso nessuno nel caso vengano chiamati a un qualche ruolo. Palermo – lo abbia voluto o meno – deve invece la sua nomina a M5S e cosa ciò implichi lo si vedrà presto. Il Movimento crede infatti nella nazionalizzazione delle imprese, specie se grandi e cronicamente in rosso come Ilva o Alitalia. Se Cdp iniziasse a occuparsene sempre di più, e a registrare perdite per questo – una cultura antica in Italia – il solo modo per abbellirne i saldi di bilancio sarebbe procedere a una sorta di maquillage poco leggibile dall’esterno, ma a spese dei contribuenti: un aumento degli interessi («remunerazione») versati dallo Stato sui 150 miliardi di liquidità depositati da Cdp nel proprio conto presso il Tesoro. Non sarebbe un’operazione priva di rischi, perché l’Unione europea potrebbe catalogare Cdp come parte dello Stato e il debito pubblico salirebbe di circa il 10%.
Questo naturalmente è uno scenario ipotetico, per ora, perché Cassa conta varie linee di difesa. Ci sono le fondazioni azioniste al 15,9%, che esprimono un presidente solido come Massimo Tononi. C’è un vicepresidente, da nominare, con la responsabilità del comitato crediti. E ci sarà per la prima volta da anni un direttore generale del Tesoro presente e attento della persona di Alessandro Rivera, azionista di riferimento all’82%. Perché questa è l’altro segnale di ieri: Giovanni Tria, ministro dell’Economia, ha perduto sul nome per la Cdp, ma sulla prima linea del suo ministero ha ottenuto ciò che voleva. E ciò che voleva somiglia in modo impressionante a ciò che aveva scelto anche il suo predecessore Pier Carlo Padoan. Il capo di gabinetto, Roberto Garofoli, è lo stesso. Rivera, già stretto collaboratore del ministro del Pd, assume un ruolo decisivo. Daniele Franco resta Ragioniere dello Stato almeno per la prossima Legge di stabilità e senza la sua approvazione delle coperture di bilancio nessuna misura potrà neppure approdare in Parlamento. E Fabrizia Lapecorella resta capo del dipartimento Finanze, snodo di ogni riforma fiscale.
Gli ultimi tre nomi, proposti da Tria, dovrebbero essere approvati in Consiglio dei ministri martedì (di nuovo, salvo sorprese). Saranno loro a scrivere, cautamente, gli obiettivi di deficit a settembre e la Legge di stabilità a ottobre. E più che una larvata sopravvivenza del governo del Pd, i loro profili rappresentano la continuità che corre nelle istituzioni sul processo di bilancio e per altre funzioni in cui gli apparati italiani lavorano a stretto contatto con quelli europei. Sembra quasi un «terzo partito» nel governo M5S-Lega, di cui Tria è un esponente di punta: forte del ruolo vincolante della Ragioneria sulle misure di bilancio, dei vincoli sulla tenuta dei conti presenti in Costituzione e del potere del Quirinale di non firmare norme che li violino.
Di fronte a questo «terzo partito», la Lega resta curiosamente duplice. Non applaude in pubblico, non avversa in privato. Giancarlo Giorgetti, esponente leghista a Palazzo Chigi, per Cdp aveva persino accettato il nome di Dario Scannapieco proposto da Tria e dal «terzo partito». Perché la Lega in politica economica segue un doppio binario. Lascia fare chiasso ai suoi istrionici populisti anti-euro, da Claudio Borghi a Paolo Savona, ma nei ruoli esecutivi piazza uomini moderati, pragmatici e di bassa visibilità: Giorgetti stesso o i viceministri Massimo Garavaglia (Economia) e Dario Galli (Sviluppo). Questo non è un segno dell’amore segreto della Lega per l’euro, ma dello choc che la base elettorale leghista di imprenditori e risparmiatori ha subito con la tempesta finanziaria procurata dai giallo-verdi in maggio. Il risultato è che la Legge di stabilità sarà da giocare entro stretti margini di deficit. E la tensione fra Lega, M5S e «terzo partito» salirà perché sulle misure da rinviare a tempi migliori.
Corriere della Sera – Federico Fubini – 21/07/2018 pg. 1 ed. Nazionale.https://www.corriere.it/