Il suo primo viaggio pastorale papa Bergoglio ha voluto farlo a Lampedusa. Dall’ultimo lembo sud d’Europa, l’8 luglio 2013, il pontefice ha innanzitutto richiamato tutti – fedeli e non – al senso imprescindibile dell’accoglienza e della solidarietà, ma ha anche inteso affacciarsi sul continente africano e lanciargli uno sguardo paterno, addolorato per quei suoi figli che, forzati a partire, hanno vissuto la terribile esperienza del viaggio, subìto violenze di ogni tipo e, in tantissimi casi, sono morti nel tratto via terra o nel passaggio del Mediterraneo. Dall’isola siciliana si è avvicinato ai clamori delle tantissime situazioni di conflitto in Africa, ha intravisto le endemiche condizioni di povertà, ma anche scorto il dinamismo e le potenzialità di un intero continente.
Prima di divenire papa, Jorge Bergoglio non era mai stato in Africa. Viene certamente «dalla fine del mondo», come ha detto nel primo saluto dopo l’elezione, ma sa che l’Africa è un’altra cosa. Sebbene sia più vicino a Roma, resta il continente culturalmente più distante rispetto all’America e forse anche all’Asia: non sarà semplice approfondire, comprendere, raccogliere le sue sfide pastorali e sociali, neanche per il papa che ha già conquistato il mondo col suo carisma di vicinanza. Non vi è dubbio, però, che la sua visione della Chiesa sia molto prossima alle problematiche e alle risorse di quel continente. A partire dai continui riferimenti alla marginalità «Uscire verso le periferie esistenziali»; «La Chiesa vada verso le periferie» – e da alcune clamorose scelte – come quella di inaugurare il Giubileo straordinario della Misericordia aprendo la porta santa della cattedrale di Bangui, capitale del Centrafrica, il 29 novembre 2015 – il Papa sembra avere molta Africa in mente.
Eredita una Chiesa africana che vive uno dei periodi di maggiore espansione della sua giovanissima storia e registra un’inarrestabile crescita in tutti i parametri. Dal 1980 ha avuto un incremento nel numero di battezzati che rasenta il 250%. Ha superato gli oltre 200 milioni di fedeli (al 1 gennaio 2016 erano 222.170.000, 7.411.000 in più rispetto al 2014) su una popolazione continentale complessiva di poco più di un miliardo di abitanti (circa il 20%). In quasi tutte le sezioni della statistica annuale redatta dall’Agenzia Fides sulla situazione globale della Chiesa cattolica nel 2017 – religiosi e religiose, istituti secolari, missionari laici, seminaristi maggiori e minori – l’Africa, a differenza degli altri continenti, compare sempre con il segno più. Per quanto riguarda l’aumento del numero di sacerdoti, poi, con un +1.133, stacca Asia (+1.104), Oceania (+82), America (+47) ed Europa (-2.502).
Ma a una crescita quantitativa impressionante, non corrisponde necessariamente uno sviluppo di tipo qualitativo. Il papa lo sa. Nella sua azione pastorale sembra muoversi con molta circospezione e cautela. Sono vari i temi che rappresentano sfide molto impegnative per la chiesa africana. Il tema del tribalismo, l’avanzata delle Chiese evangelico-pentecostali, l’azione sociopolitica in contesti poveri o afflitti dalla guerra o dai problemi ambientali. Ma a preoccupare Bergoglio sono anche l’eccessiva rigidità delle gerarchie ecclesiastiche, la condotta del clero e la questione del celibato. Riguardo questi ultimi due punti, si potrebbero citare vari casi di sacerdoti o addirittura vescovi con famiglia o intestatari di proprietà private e case. Resta certamente emblematica la situazione della Repubblica Centrafricana che, nel 2009, portò Roma a decisioni molto nette fino al pressante invito rivolto all’arcivescovo di Bangui Paulin Pomodimo e al vescovo di Bossangoa monsignor Yombandje (presidente della conferenza episcopale), a farsi da parte. Motivo? Avevamo compagne e figli.
A mettere un po’ d’ordine fu chiamato quel Dieudonné Nzapalainga, attualmente arcivescovo di Bangui, che proprio Bergoglio ha nominato cardinale nel novembre del 2016. Oltre ad aver rilanciato la Chiesa centrafricana, Nzapalainga ha conquistato la fiducia dei suoi concittadini grazie a un’instancabile opera di mediazione nell’annoso conflitto del suo Paese e per aver ospitato – e chiesto ai suoi preti di imitarlo – migliaia di musulmani in fuga dalle persecuzioni a opera delle milizie filocristiane.
Il celibato resta una delle questioni più spinose della Chiesa africana (e non solo). Non tanto per l’aspetto formale, quanto perché rimanda, assieme a tanti altri elementi, al tema dell’inculturazione. Nella storia della Chiesa ci sono stati due sinodi dedicati all’Africa, uno nel 1994 e l’altro nel 2009. Il primo, tra i tanti risultati, condusse alla definizione di due concetti base: l’impegno sociale e l’inculturazione. Su quest’ultimo aspetto, che ha scaldato i cuori di molti fedeli e creato molte aspettative, si procede a grande rilento. Se si eccettua, infatti, l’esperimento del rito zairese – una forma di celebrazione eucaristica approvata nel 1988 fondata sulla liturgia romana con un canone molto ‘africanizzato’– su numerose altre questioni la Chiesa africana rischia ancora di risultare una sorta di replica adattata di quella europea. I seminari hanno percorsi molto eurocentrici, i concetti di sacerdozio e famiglia restano occidentali e c’è chi lamenta una strutturazione ecclesiastica modellata su un diritto canonico disegnato in altri luoghi e tempi, che in Africa non avrebbe molto senso. L’ecclesiologia e la teologia africane, sembrano un meraviglioso atleta endemicamente fermo ai blocchi di partenza.
Francesco, poi, guarda all’Africa, oltre che con gli occhi del pastore, con quelli dello statista. Segue con molta attenzione le tante emergenze umanitarie in atto in quel continente, dove sono in corso tre delle quattro peggiori crisi al mondo assieme alla Siria: Centrafrica, Sud Sudan e Congo. Il 22 novembre 2017 e il 23 febbraio 2018 ha dedicato a Sud Sudan e Congo digiuni e preghiere e cita di continuo il Centrafrica nei suoi messaggi. Ha programmato un viaggio in Sud Sudan assieme al primate anglicano Welby che, a causa delle tragiche condizioni, ha dovuto rimandare (ma che ha la ferma intenzione di compiere) e non perde occasione, specie agli Angelus domenicali, di richiamare o promuovere sforzi di pace nei tanti Paesi oppressi da conflitti e situazioni drammatiche.
Rispetto a Giovanni Paolo II, che è andato 14 volte in Africa e visitato 42 Stati, ha visto molto meno direttamente il continente nero (nel novembre 2015 si è recato in Kenya, Uganda e Centrafrica e nell’aprile 2017 in Egitto, in tutto due volte come Benedetto XVI). È forse per questo che ha scelto di portare vento africano all’interno del collegio cardinalizio: da quando è papa – 13 marzo 2013 – ha nominato quasi lo stesso numero di cardinali africani che i suoi due predecessori in 35 anni: 10 contro 16 (su un totale di 225), alcuni dei quali provenienti da contesti molto problematici quanto periferici come Mali e Madagascar.
Ma il papa ha molta fiducia che proprio dall’Africa possa giungere lo spunto per un nuovo inizio spirituale e sociale per la Chiesa universale e per il mondo. Durante la visita allo slum di Kangemi, Nairobi, il 27 novembre 2015, dopo aver tuonato contro «le minoranze che concentrano il potere, la ricchezza e sperperano egoisticamente mentre la crescente maggioranza deve rifugiarsi in periferie abbandonate, inquinate, scartate» ha esaltato la «saggezza dei quartieri popolari che scaturisce da “un’ostinata resistenza di ciò che è autentico” (citazione della enciclica Laudato si’, 112), da valori evangelici che non si quotano in Borsa e che la società del benessere sembrerebbe aver dimenticato. Mi congratulo con voi, il cammino di Gesù è iniziato in periferia, va dai poveri e con i poveri verso tutti».
Questa chiesa giovane, composta da una percentuale enorme di teenagers sprizzanti vitalità ed entusiasmo, incardinata in una terra dai grandi valori spirituali ed enormi potenzialità, immersa in contesti drammatici, teatri di guerra e crisi umanitarie, lo affascina e, al tempo stesso, lo preoccupa.