Raccontare un mondo rimasto senza industria.

Una discesa nella Pianura Padana che ha perso ogni identità, gli immigrati cileni così uguali a quelli che vengono in Europa, l’ambiente ridotto a discarica. Così i vincitori del premio indetto dal Mast Foundation for Photography Grant di Bologna raccontano la globalizzazione.

Lo abbiamo capito, dopo quasi due secoli, che le fotografie non svelano nulla, nel senso che non sollevano il velo che copre la verità. La delusione è stata forte e dopo una lunga carriera al servizio della testimonianza, la fotografia, per reazione, è stata buttata nel cestino della falsificazione. Eppure Bertolt Brecht lo aveva capito già nel 1931 che una fotografia delle officine Krupp non spiega nulla sul potere del capitale. Ma fa bene Urs Stahel, il curatore del museo di fotografia industriale del Mast di Bologna, a ricordare che la citazione poi proseguiva, e che Brecht invocava, al posto dell’illusione naturalista della fotografia, la necessità di arrivare a raccontare la realtà attraverso “qualcosa di studiato, di costruito”. Le foto insomma non strappano i veli, però possono costruire forbici.

È quel che il Mast Foundation for Photography Grant ha chiesto anche quest’anno ai migliori giovani fotografi del pianeta. Di costruire qualcosa, per smontare qualcos’altro. Benché ormai il suo piatto forte sia la Biennale di fotografia industriale, il Mast, nato nel 2013 dal mecenatismo dell’imprenditrice Isabella Seràgnoli, non ha mandato in pensione il concorso da cui tutto iniziò, già dieci anni fa, quando della “Manifattura di arti sperimentazione e tecnologia” non c’erano neppure le fondamenta. Allora si chiamava GD4PhotoArt, ma aveva già questa formula: una quarantina di giovani fotografi vengono segnalati e patrocinati ciascuno da un illustre talent scout, si arriva a una rosa di quattro finalisti, poi a un primo premio che è una borsa di studio per realizzare un progetto. Il tema, ovviamente, è la fotografia industriale, ma nell’era postindustriale questa etichetta non allude più a panorami di ciminiere e a dettagli di macchinari. Sono il mondo modificato in modo irreversibile dall’era industriale e la sua condizione spesso incomprensibile, a finire sotto le lenti dei fotografi sensibili all’appello.

una modella ritratta per la serie “La fabbrica del colore” di Sarah Cwynar

In mostra a Bologna, i lavori dei quattro vincitori 2018 hanno questo principio in comune nella differenza estrema dei loro oggetti. Costruire per smontare. Sohei Nishino, giapponese, uno dei due co-vincitori, ha composto un gigantesco mosaico di fotografie. Ne ha scattate migliaia a dettagli, persone, edifici incontrati scendendo pian piano il fiume Po dalle sorgenti al mare, e la mappa della pianura padana che ha ricomposto è un mosaico caotico di tessere che si incastrano a fatica, un caos di segni che il nastro serpentino del grande fiume non riesce a tenere assieme.

Il suo paesaggio immaginario è monocromo, decolorato. Forse perché il colore è una merce, ormai, ce lo racconta in un modo tanto affascinante quanto sconcertante Sara Cwynar, canadese, vincitrice a pari merito, nel suo viaggio in una fabbrica di cosmetici. Accessori dell'”intimo pubblico”, creme e rossetti non sono davvero in vendita; quel che l’industria della bellezza vende è il colore come mito e simbolo, più immagine che realtà, più gabbia cromata che liberazione dell’Io.

“Aree residenziali inquinate dal piombo” in Michigan di Mari Bastashevski

Anche là dove il tema si presterebbe a un reportage di fotogiornalismo classico, il Grant ha scelto due visioni non testimoniali ma concettuali. Cristóbal Olivares, cileno, ha seguito gli emigranti che dal nord calano in Cile attraversando un deserto micidiale: versione antipodica di un dramma, per alcuni una minaccia, che crediamo sia solo europeo e invece è planetario. E mentre i luoghi della loro odissea ci si spalancano ostili davanti agli occhi, i volti dei migranti si girano dall’altra parte e si negano, come sono negati dallo sguardo che li accoglierà.

Anche Mari Bastashevski, russa di San Pietroburgo, sceglie di non mostrare i volti delle vittime di una catastrofe ambientale negata, l’avvelenamento colposo delle acque potabili di una città del Michigan, che da emergenza diventa vergognosa occasione di arricchimento per un sistema politico ed economico piratesco. Ed è in fondo la morale che lega i quattro lavori: la globalizzazione è quel sistema per il quale non esistono mai problemi, ma solo profitti.

 

Fonte: La Repubblica, www.repubblica.it/