L’ASTENSIONE PUÒ CREARE UNA DEMOCRAZIA SENZA POPOLO.

 

La Nota
La gara di autoreferenzialità che i partiti hanno ingaggiato sta producendo un primo risultato: dilatare l’area di chi è tentato di astenersi. Scorrere i sondaggi degli ultimi giorni significa non solo osservare le variazioni percentuali nei consensi delle forze politiche. È utile anche a verificare l’aumento del fastidio per una campagna elettorale segnata dalla confusione e dalla banalità di promesse di fronte alle quali crescono non la speranza e la fiducia, ma il distacco. I dati dell’Istituto Demopolis , resi noti ieri, dicono che a un mese dal voto andrebbe a votare il 63 per cento degli italiani: il 12 per cento meno del 2013.
È vero che nelle ultime settimane potrebbe esserci un ripensamento, almeno parziale. Ma su diciassette milioni di potenziali astensionisti, circa tredici sarebbero decisi a rimanere comunque a casa. Il dettaglio interessante è che il fenomeno colpisce indistintamente gli schieramenti; e risulta più accentuato nel Centro-Sud dell’Italia. Significa che nessuno, nemmeno il M5S, è in grado di accreditare un’offerta politica considerata diversa. Le percentuali basse registrate nell’autunno scorso alle Regionali siciliane e alle Comunali di Ostia non sarebbero, dunque, un fatto isolato ma il riflesso di un malessere strutturale.

Insomma, si profila il pericolo di elezioni ammaccate dalla scarsa partecipazione. E si indovina la conferma di dinamiche che fanno temere una «democrazia senza popolo»: un ossimoro pericoloso. Anche perché la tendenza a ritenere inutile il voto riguarda, secondo Demopolis , soprattutto i giovani sotto i venticinque anni. Per poco meno della metà, il 47 per cento, le elezioni non servono a nulla. Sono dati che preoccupano. E spiegano l’appello a «un’ampia partecipazione», rivolto dal capo dello Stato, Sergio Mattarella, in due occasioni tra dicembre e gennaio.

Incide senz’altro una legge elettorale che ha di nuovo consegnato ai leader di partito un potere quasi assoluto sulla formazione delle liste: di fatto predeterminando l’elezione in Parlamento dei fedelissimi. E pesa la tendenza a paracadutare nei collegi candidati staccati dal territorio, che però «debbono» passare: tranne rare eccezioni. Il fenomeno non può essere considerato uno stimolo a correre alle urne. Semmai, promette di frustrarlo, o comunque di favorire un voto «freddo». Se davvero le percentuali fossero quelle ipotizzate, si andrebbe sotto le percentuali del referendum del 4 dicembre del 2016.

Allora votò il 68,48 per cento degli italiani chiamati a pronunciarsi sulla Costituzione: numeri altissimi per una consultazione referendaria. Ma in quell’occasione contò molto la sensazione di potere compiere una scelta in grado di cambiare le cose in modo radicale. Il fatto che sul 4 marzo si proietti un’ombra di incertezza, di un nulla di fatto tale da costringere i partiti alla reticenza sulle alleanze, contribuisce alla disaffezione. Bisogna sperare che di qui a quel giorno aumenti la consapevolezza delle incognite in agguato. Ma tocca ai partiti, prima ancora che agli elettori, dimostrare di saperlo fare.

 

Corriere della Sera.

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