Davanti ai nuovi dati Istat sull’occupazione vale la pena di tirar in ballo la vecchia differenza tra quantità e qualità. Non c’è dubbio, infatti, che l’andamento degli occupati abbia fugato le paure di quanti – compreso chi scrive – temevano una jobless recovery, una ripresa senza lavoro. E invece il primo anno di buona ripartenza dell’economia italiana, anche se al ritmo dell’1,5% di incremento del Pil, sta portando come conseguenza un aumento del numero degli occupati ben oltre la soglia psicologica dei 23 milioni e una significativa riduzione della disoccupazione giovanile. Volendo generalizzare si può dire che la ripresa comincia «a scaricare a terra» i suoi effetti benefici. Per di più le previsioni sul 2018 non sembrano essere influenzate negativamente dall’imminente ciclo elettorale – nonostante tutte le incertezze che lo caratterizzano – e quindi i principali istituti di ricerca confermano un altro +1,5% di Pil (disposti però a correggerlo in itinere all’insù). È la dimostrazione, se vogliamo, del peso prevalente delle componenti esogene della ripresa – il commercio internazionale – su quelle endogene. E comunque le buone performance dell’indice di fiducia di consumatori e di imprese confermano ulteriormente la tendenza e ci autorizzano a lasciar da parte gli scenari più grigi.
Se però dalla quantità passiamo a osservare la qualità dell’occupazione non possiamo dormire tra i classici due guanciali: il 90% dei nuovi occupati degli ultimi due mesi ha firmato un contratto a termine. Molto dipende dalla spinta dei servizi a basso valore aggiunto (e labour intensive) e dai contratti stagionali legati al turismo e alle feste di fine d’anno ma anche nella manifattura la ricerca della flessibilità ha avuto la meglio sul Jobs act. Ci sarebbe bisogno di saperne di più su questo 90% per capire la durata dei contratti, i livelli di retribuzione, la coerenza del profilo professionale con la formazione ricevuta e via di questo passo. Tutti questi elementi sarebbero utili per arrivare alla conclusione se ci troviamo di fronte a una modifica strutturale del nostro mercato del lavoro o se il predominio del contratto a termine è dovuto a una serie di anomalie/ritardi/incomprensioni tutto sommato emendabili.
Un test importante per aggiornare queste riflessioni è rappresentato dal ritorno degli incentivi reintrodotti con decorrenza 1 gennaio seppur limitati nella platea interessata (i soli under 35) e nell’incidenza. Potremo capire meglio i comportamenti delle imprese e vedere se quel clima di fiducia di cui si parlava si spinge fino alla decisione di allargare stabilmente la pianta organica diminuendo il ricorso ai contratti a termine.
Corriere della Sera – Dario Di Vico – 10/01/2018 pg. 1 ed. Nazionale.