Vita dei Giuliani Amati.

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di Marco Travaglio

Que­sta non è una bio­gra­fia, ma un ritratto col­let­tivo, per­ché il bio­gra­fato è mul­ti­plo. Tutti lo chia­mano Giu­liano Amato, ma – tra­la­sciando l’ossimoro del cognome – è più cor­retto par­larne al plu­rale: i Giu­liani Amati. Pablo Picasso conobbe sol­tanto quat­tro periodi: quello blu, quello rosa, quello del cubi­smo ana­li­tico e quello del cubi­smo sin­te­tico. Nel nostro caso, c’è ben di più e di meglio. C’è l’Amato socia­li­sta uni­ta­rio amico del Pci e della Cgil. C’è l’Amato gio­lit­tiano che nel 1976, dopo la svolta dell’hotel Midas con l’ascesa di Craxi a segre­ta­rio, lo chiama “cra­vat­taro” e “auto­crate”. C’è l’Amato cra­xiano anti­co­mu­ni­sta. C’è l’Amato scal­fa­riano (nel senso di Scal­faro) e filo­cat­to­lico. C’è l’Amato scal­fa­riano (nel senso di Scal­fari) e laico. C’è l’Amato filo­ber­lu­sco­niano. C’è l’Amato dale­miano. C’è l’Amato neou­li­vi­sta. C’è l’Amato solip­si­sta che sta solo con se stesso. C’è l’Amato equi­vi­cino che sta con tutti. C’è l’Amato mon­tiano e anti­ca­sta che inse­gna come tagliare i costi della poli­tica in cui sguazza da mezzo secolo. C’è l’Amato napo­li­ta­niano che si par­cheg­gia alla Con­sulta in attesa di ere­di­tare il trono di re Gior­gio. C’è l’Amato che ogni dieci anni si ritira dalla poli­tica e c’è l’Amato che ogni volta vi rien­tra senza mai esserne uscito, can­di­dato a tutto e assiso dap­per­tutto, anche se finge sem­pre di non essere stato da nes­suna parte.

Il pro­fes­sio­ni­sta a con­tratto. Craxi, che lo cono­sceva bene, lo definì “un tec­no­crate, un ottimo pro­fes­sio­ni­sta che lavora a con­tratto… un Giuda, un oppor­tu­ni­sta che stri­sciava ai miei piedi e ora stri­scia a quelli degli altri per sal­varsi la pelle”. Fu quando il suo ex Tigel­lino comin­ciò a far finta di non averlo mai cono­sciuto. Un uomo per tutte le sta­gioni, che in cia­scuna ha lasciato segni e impronte inde­le­bili. Non digi­tali, però: infatti è uno dei due o tre ex mini­stri socia­li­sti mai sfio­rati da inchie­ste giu­di­zia­rie. Nato a Torino il 13 mag­gio 1938 da una fami­glia di ori­gini sici­liane che pre­sto si tra­sfe­rirà in Toscana, Amato stu­dia al liceo clas­sico Nic­colò Machia­velli di Lucca. Poi s’iscrive e si lau­rea in Giu­ri­spru­denza alla Nor­male di Pisa, aggiun­gendo nel 1962 un master alla Law School della Colum­bia Uni­ver­sity. Dal 1975 inse­gna Diritto costi­tu­zio­nale com­pa­rato alla Sapienza di Roma. Poli­ti­ca­mente nasce nel Psiup (Par­tito socia­li­sta ita­liano di unità pro­le­ta­ria), poi tra­sloca armi e baga­gli nel Psi come testa d’uovo della cor­rente di sini­stra di Anto­nio Gio­litti. Nel 1978 fonda con Gior­gio Ruf­folo il gruppo “Pro­getto Socia­li­sta”. E nel 1979, sem­pre da sini­stra, tuona con­tro le “forme degra­danti” del dibat­tito interno dopo lo scan­dalo delle tan­genti arabe Eni-Petromin. La que­stione morale è tal­mente bru­ciante che Franco Bas­sa­nini e altri lasciano il par­tito, nel frat­tempo agguan­tato da Bet­tino Craxi. Ma lui no. Anzi, diventa a poco a poco il con­si­gliori più ascol­tato di Bet­tino, che solo pochi anni prima chia­mava “il cra­vat­taro”, sca­lando a passo di mar­cia tutti i gra­dini fino al ver­tice del partito.

Il servo serve. Il 7 luglio 1981 è in par­tenza per un viag­gio di studi a Washing­ton e teme che, insomma, lon­tan dagli occhi lon­tan dal cuore di Craxi (con annessi sor­passi di altri arram­pi­ca­tori garo­fa­nati). Così prende carta e penna e, su carta inte­stata del diret­tore della Facoltà di Scienze poli­ti­che della Città Uni­ver­si­ta­ria di Roma, gli scrive una let­tera stri­sciante alla Sir Biss, per met­tersi a sua com­pleta dispo­si­zione, anche dall’altra sponda dell’oceano, e men­di­care un inca­rico pur­ches­sia, anche di “por­ta­voce”, per “ren­dermi utile” e “farmi usare, se serve”. E, già che c’è, vel­lica le fre­gole duce­sche del Capo facen­do­gli bale­nare quel pro­getto di Repub­blica pre­si­den­ziale che lui stesso ha lan­ciato un anno prima dalle colonne di Repub­blica.

“Caro Bet­tino, vor­rei pro­prio poterti par­lare (ti cer­cherò attra­verso Sere­nella (Car­loni, la segre­ta­ria di Craxi, ndr), per due que­stioni: – Una per­so­nale: ormai si avvi­cina il tempo della mia par­tenza per Washing­ton (25 ago­sto)”. S tarò lì – pro­se­gue Amato – diversi mesi: per ren­dermi utile al par­tito, non potrei avere una qual­che inve­sti­tura, che mi per­metta di avere rap­porti per conto del Psi, di farmi usare – se serve – come tra­mite, por­ta­voce etc? – Una isti­tu­zio­nale: da tempo, prima per la verità delle ele­zioni fran­cesi, arri­vano da varie parti sol­le­ci­ta­zioni a ripren­dere il discorso pre­si­den­ziale. Se Craxi ci sta – sento dire – il polo laico lo aggre­gherà con que­sta carta. Riflet­tici con calma. Ma defi­niamo una linea. A pre­sto. Giuliano”.

Zam­pino & Zam­pini. Nel marzo 1983 esplode a Torino la prima Tan­gen­to­poli d’Italia. Il sin­daco comu­ni­sta Diego Novelli riceve la denun­cia di un impren­di­tore costretto a pagare tan­genti e lo accom­pa­gna alla Pro­cura della Repub­blica. Fini­scono in car­cere il fac­cen­diere Adriano Zam­pini, il suo amico vice­sin­daco Enzo Biffi Gen­tili col fra­tello Nanni, il capo­gruppo comu­ni­sta in Regione Franco Revelli, men­tre il suo col­lega del Comune, Gian­carlo Qua­gliotti è inda­gato assieme a tanta altra bella gente del Psi, del Pci e della pre­sunta oppo­si­zione Dc. Craxi tuona subito con­tro “la deli­be­rata fero­cia delle pro­ce­dure e l’inumana spet­ta­co­la­rità che mi auguro sia stata sol­tanto casuale, viste le con­se­guenze di ecce­zio­nale gra­vità cau­sate alle isti­tu­zioni locali”. E nomina com­mis­sa­rio del par­tito Giusy La Ganga, il quale però fini­sce subito pure lui sott’inchiesta. Così Bet­tino – che sta per diven­tare pre­si­dente del Con­si­glio – manda sotto la Mole il pro­fes­sor Amato, al suo primo inca­rico uffi­ciale. Per comin­ciare, Amato fa un caz­zia­tone a Novelli. “Mi rim­pro­verò – ricorda l’ex sin­daco rosso – di non avere ‘risolto poli­ti­ca­mente la que­stione’ anzi­ché andare dai giu­dici”. Cioè di non averlo insab­biato. Lui la “solu­zione poli­tica” – come dimo­strerà in seguito – ce l’ha nel sangue.

Piero Fas­sino, gio­vane e smilzo segre­ta­rio della Fede­ra­zione tori­nese e mem­bro della Dire­zione nazio­nale del Pci, si pre­senta il 7 aprile al Comi­tato cen­trale e spara a zero sulla pre­di­spo­si­zione di certi socia­li­sti a rubare. Amato gli risponde per le rime, alla maniera cra­xiana: “Abbiamo sop­por­tato con pazienza, per giorni, le dichia­ra­zioni che Fas­sino ha fatto sul nostro par­tito, deri­vando dalla nostra natura e dal nostro modo di fare poli­tica le dege­ne­ra­zioni su cui inqui­si­sce la magi­stra­tura. Ora la pazienza è finita e cor­rono il rischio di finire anche il garbo e la riser­va­tezza con cui abbiamo trat­tato sin qui i pro­ta­go­ni­sti comu­ni­sti (e ce ne sono a vario titolo) di que­sta vicenda. Dico solo, per ora, che Fas­sino, met­tendo in discus­sione la nostra dignità di inter­lo­cu­tori poli­tici, ha tro­vato la via migliore per ritar­dare la con­clu­sione delle trat­ta­tive in corso (per rifare la giunta Pci-Psi, ndr). Noi potremo a que­sto punto rifiu­tarci di andare all’incontro con il Pci. Se all’incontro non ci verrà for­mal­mente assi­cu­rato che Fas­sino ha espresso sul Psi opi­nioni pura­mente per­so­nali, la trat­ta­tiva finirà lì… Le strade della gover­na­bi­lità sono sem­pre più di una”. Come dire: se il Pci non la smette di fare del mora­li­smo, ci rivol­giamo alla Dc. Fas­sino replica a stretto giro: “Con vivo stu­pore ho letto le dichia­ra­zioni del pro­fes­sor Amato. Trovo fran­ca­mente incom­pren­si­bile che si pre­tenda di sin­da­care e cen­su­rare un inter­vento fatto in qua­lità di mem­bro del Comi­tato cen­trale. Non rie­sco a capire il senso di que­sta gra­tuita pole­mica. Sarei lieto di tro­vare nei socia­li­sti tori­nesi lo stesso spi­rito di auto­cri­tica che con­trad­di­stin­gue il com­por­ta­mento mio e dei comu­ni­sti tori­nesi”. Di auto­cri­tica, ovvia­mente, non ci sarà trac­cia, e ben pre­sto Novelli dovrà lasciare il campo a un pen­ta­par­tito, gui­dato ovvia­mente da un socia­li­sta, Gior­gio Cardetti.

Il testa-Coda. Il 27 giu­gno 1983 si vota per le ele­zioni poli­ti­che nazio­nali. E Amato, can­di­dato per la prima volta alla Camera, risulta il socia­li­sta più votato in Pie­monte: quasi 33 mila pre­fe­renze, al primo colpo. Di quella cam­pa­gna elet­to­rale si par­lerà a lungo, a Torino. Per­ché l’irrompere di Amato, con la diretta inve­sti­tura di Craxi, semina lo scom­pi­glio nei gio­chi cor­ren­tizi del Garo­fano subal­pino. Fino ad allora coman­dano La Ganga per i cra­xiani e Anto­nio Salerno per la sini­stra interna. Si tratta di tro­vare un valido sup­por­ter per la cam­pa­gna del pro­fes­sor Amato. Che, in seguito a forti pres­sioni del vice­se­gre­ta­rio Clau­dio Mar­telli, viene “adot­tato” da uno dei signori delle tes­sere socia­li­sti: Fran­ce­sco Coda-Zabet, altro espo­nente della sini­stra con solidi agganci nelle auto­strade, nella sanità e nelle ban­che. “Per quella prima cam­pa­gna di Amato – ci rac­contò anni fa un alto espo­nente del Psi dell’epoca, che ci chiese l’anonimato – fu pre­ven­ti­vata una spesa di 1 miliardo di lire. E non fu facile tro­vare tutto quel denaro. Ma chi lo fece si svenò volen­tieri, spe­rando che Giu­liano si rive­lasse un buon ‘inve­sti­mento’. Gli amici di Coda riu­sci­rono a raci­mo­lare 700 milioni. Gli altri 300 li pro­curò l’entourage di Giu­seppe Rolando, asses­sore socia­li­sta ai Tra­sporti, che però di suo non aveva mai una lira ed era solito ricor­rere a sistemi di approv­vi­gio­na­mento, diciamo, ‘alter­na­tivi’…”. Le inda­gini del giu­dice istrut­tore Seba­stiano Sor­bello dimo­stre­ranno che Rolando pren­deva tan­genti sugli appalti comu­nali dei tra­sporti, e si faceva pure finan­ziare dai cam­bi­sti di Saint-Vincent rila­sciando in garan­zia asse­gni a vuoto o postdatati.

Amato dichia­rerà di aver speso, per quella cam­pa­gna, 50 milioni di lire. Ma il nostro inter­lo­cu­tore, l’Anonimo Socia­li­sta, aggiunge un rac­conto di seconda mano che, se fosse vero, sarebbe dav­vero avvin­cente: “Appena eletto, Amato volò a Roma per diven­tare sot­to­se­gre­ta­rio alla pre­si­denza del Con­si­glio del nuovo governo Craxi. E quasi subito si dimen­ticò degli amici che l’avevano aiu­tato, lascian­doli pieni di debiti. Coda-Zabet e Rolando, infu­riati, deci­sero di chie­der­gli indie­tro i soldi. Par­ti­rono per Roma e gli die­dero appun­ta­mento in un risto­rante. Quando Amato arrivò a mani vuote, Coda perse la pazienza, impu­gnò una sedia e comin­ciò a rotearla per aria, minac­ciando di col­pirlo, men­tre Rolando ten­tava di cal­marlo e Amato gua­da­gnava rapi­da­mente l’uscita. I due se ne tor­na­rono a Torino con un pugno di mosche in mano”.

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Nella Torino dei primi anni 80 il pro­fes­so­rino Giu­liano Amato, che Giam­paolo Pansa ed Euge­nio Scal­fari chia­mano il Dot­tor Sot­tile per l’affilatezza delle sue tesi giu­ri­di­che e del suo fisico da rodi­tore, può per­met­tersi di fare l’intellettuale socia­li­sta. Tanto, a occu­parsi delle pro­sai­che cose di que­sto mondo, com­prese le fac­cende di vil danaro, prov­ve­dono per lui i capa­tàz della sini­stra del Psi subalpino.

Il Car­tò­fago. Li abbiamo già visti all’opera nella rac­colta dei finan­zia­menti da un miliardo di lire per far­gli con­qui­stare nel 1983 il suo primo seg­gio da depu­tato. Uno è Fran­ce­sco Coda-Zabet, pro­fu­miere e ras delle tes­sere, che si vanta spesso di riu­scire, volendo, a “far eleg­gere una pompa di ben­zina”. È detto “il car­to­fago”, per l’abilità con cui a un con­gresso riu­scì a man­giarsi la lista dei can­di­dati di oppo­si­zione per levar­seli di torno. L’altro è l’assessore ai Tra­sporti Giu­seppe Rolando, che di lì a poco fini­sce in car­cere per le maz­zette sui “sema­fori intel­li­genti”: la Guar­dia di Finanza gli trova addosso un pacco di asse­gni sco­perti e, inter­cet­tan­do­gli il tele­fono, ascolta più di un accenno ai rap­porti fra lui, Coda e Amato. Anche Coda-Zabet fini­sce den­tro nel 1987 (verrà poi assolto), per un giro di tan­genti sugli appalti ospe­da­lieri. E lì, nella sua cella di iso­la­mento alle car­ceri Nuove, viene visi­tato dallo sto­rico cap­pel­lano, padre Rug­gero Cipolla. Che fini­sce pure lui agli arre­sti per un epi­so­dio ai con­fini della realtà. Il frate cap­puc­cino, in visita al poli­tico dete­nuto, gli con­se­gna – come ammet­terà lui stesso – un bigliet­tino con i “saluti” e gli “inco­rag­gia­menti” di “alcuni amici, anche poli­tici, socia­li­sti e non”, inte­res­sati ovvia­mente al suo silen­zio. Prima che gli agenti peni­ten­ziari rie­scano a seque­strar­glielo, Coda il Car­to­fago lo legge, lo memo­rizza in un bat­ti­ba­leno, se lo infila in bocca, lo mastica e lo inghiotte. Inter­ro­gato sui nomi dei fir­ma­tari, padre Cipolla rifiu­terà sem­pre di rispon­dere. Gli “amici socia­li­sti e non” ringraziano.

Il primo Sal­va­Sil­vio. Nell’ottobre del 1984 Craxi è pre­si­dente del Con­si­glio da un anno e mezzo, e Amato è al suo fianco come sot­to­se­gre­ta­rio a Palazzo Chigi. Tre pre­tori – Giu­seppe Casal­bore di Torino, Euge­nio Bet­tiol di Roma e Nicola Tri­fuoggi di Pescara – deci­dono di far rispet­tare la legge che vieta alle tv della Finin­vest di Sil­vio Ber­lu­sconi di tra­smet­tere in con­tem­po­ra­nea (“inter­con­nes­sione”) su tutto il ter­ri­to­rio nazio­nale, come può fare legit­ti­ma­mente sol­tanto la Rai. E pon­gono sotto seque­stro gli impianti fuo­ri­legge. Il Cava­liere potrebbe segui­tare a tra­smet­tere i pro­grammi (tutti regi­strati su appo­siti nastri, le famose “pizze”) a orari sca­glio­nati sulle sue varie emit­tenti locali con­sor­ziate nei net­work Canale5, Rete4 e Italia1. Invece decide di oscu­rarle del tutto, per poter dare la colpa ai giu­dici “comu­ni­sti” e chia­mare il popolo dei Puffi e delle tele­no­ve­las alla rivolta con­tro l’illiberale ten­ta­tivo di appli­care una legge dello Stato (nella fat­ti­spe­cie: una sen­tenza della Corte costi­tu­zio­nale). Il pre­si­dente del Con­si­glio Craxi, in quel momento in visita uffi­ciale a Lon­dra, annulla l’appuntamento con Mar­ga­ret That­cher e torna pre­ci­pi­to­sa­mente a Roma per varare in tutta fretta un appo­sito decreto legge (il “decreto Ber­lu­sconi”) per risol­vere poli­ti­ca­mente la que­stione, vani­fi­cando il prov­ve­di­mento della magi­stra­tura. E lega­liz­zando ex post l’illegalità. E anti­ci­pando di tre giorni la con­vo­ca­zione del Con­si­glio dei mini­stri (che si riu­ni­sce di sabato) in seduta straor­di­na­ria: mai vista tanta urgenza, nem­meno per l’alluvione del Pole­sine e i ter­re­moti in Belice, Friuli e Irpi­nia. L’estensore della legge ver­go­gna pro B. – la prima di una lunga serie – è il sot­to­se­gre­ta­rio alla Pre­si­denza del Con­si­glio, Giu­liano Amato.

Il prov­ve­di­mento – assi­cura Palazzo Chigi – è solo tem­po­ra­neo, per dare tempo alle Camere di varare un’organica disci­plina del Far West tele­vi­sivo. Balle. Per­sino il Par­la­mento ita­liano si ribella a cotanto scon­cio, e vota a sor­presa per l’incostituzionalità del decreto. Così i pre­tori tor­nano a imporre la legge, e il Cava­liere a “oscu­rare” il suo net­work, con annessa cam­pa­gna vit­ti­mi­stica di spot e programmi-piagnisteo. Sta­volta Palazzo Chigi minac­cia i par­titi alleati di andare alle ele­zioni anti­ci­pate se non verrà sal­vato Berlusconi.

Orga­smo da Rot­ter­dam. Il tempo stringe, il decreto sta per deca­dere, la sini­stra annun­cia ostru­zio­ni­smo in Par­la­mento. Così Palazzo Chigi (i soliti Craxi & Amato) strappa al pre­si­dente del Senato (Fran­ce­sco Cos­siga) il con­tin­gen­ta­mento dei tempi per i sin­goli inter­venti delle oppo­si­zioni. Poi, per far deca­dere gli emen­da­menti, pone la que­stione di fidu­cia. Tanto, si dice, gli effetti del decreto sca­dono il 6 mag­gio 1985: da quella data Ber­lu­sconi non potrà più tra­smet­tere senza una nuova legge Anti­trust: “Sino all’approvazione della legge gene­rale sul sistema radio­te­le­vi­sivo – si legge nel decreto – e comun­que non oltre sei mesi dalla data di entrata in vigore del pre­sente decreto, è con­sen­tita la pro­se­cu­zione dell’attività delle sin­gole emit­tenti tele­vi­sive pri­vate…”. Ma la nuova legge non arriva e l’ultimatum di sei mesi è pura fin­zione: Palazzo Chigi (i soliti Craxi & Amato) con­cede all’amico Sil­vio un’altra pro­roga fino al 31 dicem­bre 1985. Data peral­tro fit­ti­zia pure quella: il governo Craxi & Amato sta­bi­li­sce che il decreto non è “prov­vi­so­rio”, bensì “tran­si­to­rio”. In pra­tica, eterno. Il 3 gen­naio 1986, sca­duta la pro­roga, basta una “nota” del sot­to­se­gre­ta­rio Amato per comu­ni­care che la nor­ma­tiva non neces­sita di ulte­riori pro­ro­ghe legi­sla­tive. Con tanti saluti alla legge, che dice “comun­que non oltre sei mesi…”. Sil­vio è salvo. Nel 2009 l’inviato di Report Ber­nardo Iovene gli ricor­derà quel truc­chetto del decreto “tran­si­to­rio” che diven­tava per­pe­tuo. E lui, anzi­ché arros­sire e nascon­dersi sotto il tavolo, s’illuminerà d’immenso e d’incenso: “Sa, noi giu­ri­sti viviamo di que­ste finezze: la distin­zione fra tran­si­to­rio e prov­vi­so­rio è quasi da orga­smo per un giu­ri­sta… Quando discuto attorno a un tavolo tec­nico e qual­cuno dice ‘que­sta cosa è vie­tata’, io fac­cio aggiun­gere ‘ten­den­zial­mente’…”. Dev’essere per que­sto che oggi è giu­dice della Corte costituzionale.

Il Par­tito degli Affari. Nel 1985 l’ingegner Carlo De Bene­detti si accorda con l’Iri di Romano Prodi per acqui­sire il colosso ali­men­tare Sme, un car­roz­zone che perde miliardi e accu­mula debiti. Ma Craxi non gra­di­sce e si mette di tra­verso. Amato ese­gue: “Minac­ciò – scri­verà Gian­carlo Perna su Il Gior­nale (mai smen­tito) – il mini­stro delle Par­te­ci­pa­zioni Sta­tali Cle­lio Darida di sbat­terlo all’Inquirente, se non avesse bloc­cato il mer­ci­mo­nio. Darida obbedì. Allora si fecero avanti Barilla, Fer­rero e Ber­lu­sconi”. Il pre-contratto con l’Ingegnere fu annul­lato, poi il con­ten­zioso civile venne risolto dalla solita cricca dei giu­dici amici di Previti.

Nel 1986-87, riecco Amato alle prese con le pri­va­tiz­za­zioni: sta­volta c’è da ven­dere l’Alfa Romeo (gruppo Iri). Si fanno avanti la Fiat e, con un’offerta molto più van­tag­giosa, l’americana Ford. Nel Psi pre­vale il par­tito della Ford. Ma Amato rove­scia gli equi­li­bri e li porta sulla Fiat, che si aggiu­dica per un pezzo di pane l’unica azienda con­cor­rente rima­sta sul mer­cato interno. Ricor­derà Craxi in un fax molto allu­sivo inviato nel 1995 ai Cobas dell’Alfa di Arese (parti civili nel pro­cesso di Torino a Cesare Romiti per falso in bilan­cio e finan­zia­mento ille­cito al Psi): “Amato, come sot­to­se­gre­ta­rio alla Pre­si­denza del Con­si­glio, si occupò cer­ta­mente della vicenda, men­tre non se ne occupò, che io ricordi, l’intero par­tito. Di ritorni eco­no­mici… a par­titi o sog­getti sin­goli non so nulla. Cer­ta­mente non ne ebbe il par­tito…”. Amato, dun­que, pro Fiat e altri socia­li­sti con­tro: per esem­pio Giusy La Ganga e Giu­lio Di Donato. Quest’ultimo – inter­ro­gato dai pm di Torino – dipinge Amato come una sorta di zer­bino ai piedi di Romiti: “La sezione locale e azien­dale di Pomi­gliano d’Arco era orien­tata con mag­gior favore verso la ces­sione alla Ford. Anche il Pci locale aveva que­sta posi­zione insieme ai sin­da­cati. Poi venni chia­mato dall’on. Amato, che mi disse che la solu­zione Fiat era di gran lunga migliore, sotto il pro­filo poli­tico, della solu­zione Ford”. E Fiat fu.