L’urlo del San Giovanni.

È l’urlo dell’apostolo prediletto davanti al corpo di Cristo morto: è la narrazione delle emozioni ideata da Leonardo da Vinci, raccolta da un maestro intagliatore lombardo, e travasata nel legno.

È lui la «scultura più bella» della Biennale Internazionale dell’Antiquariato di Firenze in corso fino al 1° ottobre a Palazzo Corsini. Lui, il San Giovanni ligneo di Giovan Angelo del Maino, statua che grida il dolore dei seguaci riuniti intorno al Sepolcro. Esposta accanto al bozzetto leonardesco per il San Giacomo dell’Ultima Cena – suo modello ispiratore – la scultura fende lo spazio a braccia aperte, il corpo proteso in avanti, la bocca socchiusa in una smorfia composta: la sua pena interiore trasuda da ogni gesto. È in attesa di un destino che tarda ad incontrare. Bello sarebbe — si augurano anche i galleristi della Mehringer Benappi — se potesse riunirsi alla Maddalena e a Nicodemo, due delle sette figure scolpite nel ‘500 per il convento dell’Annunciata di Piacenza, compagne di un Compianto disperso dal tempo, oggi ritrovate e acquistate dal Castello Sforzesco di Milano. Protagoniste di un presepio del dolore in cui la forza dei gesti incantava i fedeli di ieri, affascina le platee di sempre. Oggi, quelle della Biennale.

Come dar voce al linguaggio del corpo? È Leonardo fra i primi a porsi il dilemma di fare emergere i moti dell’anima nell’arte. Di rappresentare le passioni. Per lui una figura che non mostri «affezione e fervore» è da considerarsi due volte morta. «Sia variato l’arie de’ visi secondo li accidenti dell’uomo — scrive il maestro nel Trattato sulla pittura — in fatica, in riposo, in ira, in pianto, in gridare e timore, e cose simili». Il sentire insomma deve riflettersi sul volto. Ma non basta. «Le membra della persona insieme con tutta l’attitudine, debba rispondere all’effigie alterata». Per raccontare l’uomo e ciò che gli passa nella testa — dice il Da Vinci — bisogna osservarne i gesti, cogliere i particolari: la torsione di una mano, l’inclinazione del busto. Il sollevarsi di uno zigomo. «Farai le figure in tale atto — scrive ancora — il quale sia a dimostrare quello che la figura ha ne l’animo: altrimenti la tua arte non fia laudabile». Siamo nel 1494, lo schizzo per San Giacomo (Maggiore) — apostolo del Cenacolo di Santa Maria delle Grazie — mostra un giovane preso di tre quarti, il capo chino, la bocca socchiusa, due orbite incavate in cui sprofondano gli occhi. È un uomo attonito, inchiodato dalla sorpresa: la notizia del tradimento è caduta come una bomba fra i discepoli. Niente sarà più come prima, non sulla tavola del Cenacolo leonardesco, non nelle Ultime Cene ritratte da quel momento in poi, non nella pittura. E in nessun altra arte.

Giovan Angelo del Maino non è che un «magister a lignamine», un intagliatore specializzato nella produzione di arredi sacri. Cresciuto nella bottega paterna, il giovane scultore cerca una strada propria, rinnova lo stile, diventa punto di riferimento per il ducato milanese. Siamo verso il 1530, la lezione di Leonardo non è passata invano. E nemmeno le vicende storiche, l’onda emotiva della Riforma, i primi rilanci espressivi della Controriforma. È l’epoca stessa a richiedere più coinvolgimento, più emozioni. Coraggioso innovatore, Giovan Angelo accetta la sfida di Leonardo, soffia vitalità e movimento nel suo legno, realizzando un’opera quasi sperimentale: un Compianto vivente, in cui la sua Madonna si appoggia all’indietro svenuta, la Maddalena sfiora incredula il corpo di Gesù con le mani avvolte in un mantello, il San Giovanni addirittura corre verso quel corpo esanime. Ogni statua è ricavata da un unico, grande tronco, scavato all’interno e chiuso da uno sportello sulla schiena. Sette figure componevano il Sepolcro del Maino, cinque sono sopravvissute al naufragio della storia fino a noi, e in una rarissima foto dei primi del ‘900 (Fondazione Federico Zeri) appaiono intente a un lamento funebre di sguardi, legate le une alle altre in un dialogo di gesti proprio come gli apostoli leonardeschi sul muro di Santa Maria delle Grazie. E a loro terribilmente simili: la Maddalena ha le dolci sembianze di San Filippo; Giuseppe d’Arimatea ha lo stesso naso, le stesse labbra di San Simone; Nicodemo sembra San Pietro. Fra tutti — vero capolavoro del gruppo — il San Giovanni-San Giacomo si impone nello spazio, lo riempie, con quelle braccia aperte, la tensione nel collo, la bocca schiusa in una smorfia fra il disperato e sorpreso. Tutte le membra narrano un’emozione senza tempo. Là, sul muro di Leonardo, l’incredulità del tradimento. Qua, nel legno di Giovan Angelo, l’incredulità della morte. Racconti egualmente necessari ad un tempo affamato di passioni. Disperso — secondo Federico Zeri — fra l’800 e il ‘900, il Compianto oggi giace smembrato: due pezzi nelle collezioni civiche del Castello Sforzesco (Maddalena e Nicodemo); due pezzi in collezioni private (Maria e Giuseppe d’Arimatea), e il San Giovanni Evangelista in attesa di un acquirente che ne decreti la sorte. Lui, il più bello fra tutti, con quel panneggio morbido sulle membra tese, e quell’«effigie alterata» che avrebbe compiaciuto anche Messer Leonardo.