Il fotografo che non voleva essere reporter.

MICHELE SMARGIASSI FOTOGRAFIE DI WERNER BISCHOF/MAGNUM PHOTOS
Una retrospettiva a Venezia raccoglie gli scatti di Werner Bischof, tra i fondatori di Magnum Sono immagini del dopoguerra piene di empatia
Dove sarà finita Jurika, la bimba ungherese col cartellino al collo, la mano nella tasca del golfino, il lacrimone all’occhio, che Werner Bischof fotografò un giorno di settembre del 1947 alla stazione di Keleti, Budapest, dietro il finestrino del treno che la portava in Svizzera assieme a centinaia di altri bambini poveri e orfani di guerra? Che vita avrà vissuto la “Generazione X”, partorita e abbandonata da quel macello di guerra? Be’, noi lo sappiamo. Sono i nostri genitori, i nostri nonni. Ma lui, quel ragazzone romantico e sensibile, non lo poteva sapere e non lo seppe mai, cosa sarebbe diventata quell’Europa in macerie, anche se cercava la risposta nei volti dei bambini buttati via dalla storia, senza colpa, pure vittime. Della guerra, Bischof non aveva visto nulla: durante l’uragano, figlio di famiglia più che benestante, viveva e studiava da artista nella “perfetta Svizzera”. Ma dopo non riuscì più a farlo. Mollò i suoi still life, gli off camera da piccolo Man Ray, inforcò una bicicletta e partì per il primo dei suoi lunghi viaggi. Al padre deluso scrisse: “perdonami, non potrò più fotografare belle scarpe e tessuti preziosi. Sono un essere umano”. Nei soli nove anni che la sorte concesse al suo slancio dell’anima disegnò l’affresco di una tragedia e di una speranza planetarie. Eppure fece resistenza, fino all’ultimo, al ruolo che la storia gli aveva assegnato, ovvero essere un grande fotoreporter, il primo e forse ancora insuperato interprete della sofferenza dei deboli e degli invisibili. La parola stessa, fotoreporter, gli faceva ribrezzo. In Corea, con una foto impietosa prese le distanze dal mucchio selvaggio del colleghi, “iene sul campo di battaglia”. Ma quando Robert Capa lo chiamò nella sua Magnum, covo di “avventurieri con coscienza”, accettò senza esitare. Lavorò per grandi testate, da Life in giù. I rotocalchi pretelevisivi erano affamati di storie, pubblicavano “praticamente tutto”, il mondo era in ginocchio, Bischof si era imposto di farlo vedere e lo fece, dal Bihar indiano devastato dalla carestia al Giappone ancora fiero, all’America vincitrice che invece non gli piacque affatto, che trovò “brutale ed egoista”. Quando era partito, preoccupato per il suo passato di fotografo di oggetti inanimati, “mettici delle persone” gli aveva raccomandato l’amico Arnold Kübler, fondatore di Du, la rivista illustrata svizzera che gli pubblicò i primi reportage. Consiglio superfluo: Bischof fu il prototipo del fotografo umanista, “uomo assoluto” nella definizione dell’amico fraterno Ernst Haas, e aveva una missione: “voglio raccontare come l’Europa educherà la prossima generazione, come la tirerà fuori dalle macerie”. Cominciò dai paesi sconfitti, Germania, Ungheria e venne anche in Italia, dove conobbe sua moglie Rosellina. Per la grande retrospettiva veneziana, alla casa dei Tre Oci, il figlio Marco (in questi giorni in Perù sulle tracce del padre) ha recuperato negli archivi una ventina di immagini italiane inedite. Sotto le Alpi, lo sguardo di Bischof prende una inflessione meno drammatica. L’Italia è un Paese sconfitto come la Germania, ma nelle strade di Milano o di Napoli, fra panni stesi, bancarelle e bande di ragazzini, Bischof sembra scoprire la resistenza umana di una comunità che passa sotto la storia, la sua angoscia cede a tratti il posto alla tenerezza e perfino all’aneddotica ironia. Gli capiterà poche altre volte: nel villaggio indocinese di Barau, che ignorava tempo e guerre, o sulle Ande dove gli venne incontro un ragazzino indio immerso nella melodia del suo flauto, forse l’immagine perfetta che cercava da quando tutto era cominciato. Fu una delle sue ultime immagini. Il fotografo che non volle essere un reporter e non poté essere un artista non visse abbastanza per vedere il futuro delle sue speranze: il 16 maggio 1954 precipitò con la jeep in un burrone dalle parti di Cuzco. Nel 2016 avrebbe compiuto cent’anni, ne visse solo trentotto. Pochi giorni dopo Robert Capa saltò su una mina in Indocina. La storia fu crudele con gli occhi che avevano cercato di vedere oltre le sue spalle.
Fonte: La Repubblica, www.repubblica.it/