«L’hip hop è una cultura nata a New York, nel Bronx, all’inizio degli anni Settanta. Si fonda su quattro elementi: il b-boying (o breakdance ), il writing , il djing e il rap ». Il mio film, Numero Zero , inizia così, e a pronunciare queste parole dal sapore volutamente didascalico è Ensi, una delle colonne dell’hip hop italiano di oggi. Il rap non è solo un genere musicale dunque, è parte di qualcosa di più grande, complesso e articolato. Una cultura, o se vogliamo una corrente artistica o una nuova forma di narrazione (come ha suggerito il docente americano Nicholas Rombes su «la Lettura» #296). Come tale, abbraccia diverse discipline. Quando si parla di rap è bene non dimenticare questo tratto fondante. Non tanto per ortodossia o per i dogmatismi che ne possono derivare, quanto piuttosto per avere qualche strumento in più per valutarne il valore, la potenza e capirne i codici.
Negli anni Ottanta arrivano nel nostro Paese i primi echi dagli Stati Uniti. L’hip hop era (ed è) una strada per il riscatto, una possibilità di provare liberamente a incanalare una passione, una capacità, un’attitudine in un’espressione artistica. Si impara strada facendo, con orecchie e occhi tesi al modello originario. Ascoltando musica ovviamente, ma anche leggendo quelle poche riviste che si riescono a reperire e divorando a ripetizione film culto come Wild Style e Beat Street . Ogni goccia di informazione e di conoscenza viene assorbita e custodita gelosamente, in un’epoca che era priva di internet, cellulari, cd, dvd. Negli anni Ottanta si rappa già in italiano, ma i vinili incisi sono in lingua inglese ( Radical Stuff , Power Mc’s e Devastatin’ Posse ).
La svolta, però, è alle porte. Il 15 giugno 1990 esce Batti il tuo tempo degli Onda Rossa Posse guidati da Militant A, engagé fino al midollo, ora come allora. A Bologna ci sono gli Isola Posse All Star. Nomina sunt consequentia rerum : ci sono Deda, DJ Gruff, Gopher, Papa Ricky, Neffa e DeeMo. Stop al Panico del 1991 diventa subito un inno più che una canzone. Il 1991 è anche l’anno di Frankie hi-nrg mc con Fight da Faida , poi inclusa nell’album Verba Manent nel 1993. E del 1993 è anche l’album d’esordio degli Articolo 31, Strade di città , primo vero successo di vendite per un gruppo rap. Così come del 1993 è anche Immigrato dei Comitato e Rapadopa di Gruff, che aveva anche collaborato un anno prima a Sfida il Buio di DeeMo, considerato oggi un caposaldo.
I centri sociali diventano la casa naturale di questa cultura. Sono gli stessi centri sociali a marcare, volenti o nolenti, una differenza rispetto agli Usa , a disegnare un’impronta di italianità che vive, anche se in parte, ancora oggi. Nei testi si parla non tanto di pistole e omicidi, quanto di rivendicazioni sociali, politica, lotta. E anche dell’hip hop stesso, perché l’autoreferenzialità è una componente fondamentale. Non ci sono giri di parole, non si è raffinati ma si fanno i nomi. Si attaccano i massimi sistemi ma anche Bossi, Forza Italia, i sindacati. È una rabbia a briglia sciolta. Non si vuole far parte del sistema, si rivendica l’autonomia.
L’humus è eterogeneo, ed è così che nasce, nel 1994, l’album hip hop migliore di sempre: SxM , dei Sangue Misto, ovvero Neffa, Deda e Gruff. Giocano con il linguaggio, manipolano lo slang. SxM è oggi un disco osannato dai fan, celebrato e citato dagli altri rapper, ricercato ossessivamente dai collezionisti di vinili. «È un capolavoro, punto», dice Frankie hi-nrg mc. E come spesso accade ai capolavori, fu compreso da pochi, e anche per questo il gruppo si sciolse in breve tempo e non fece altri dischi. Ma tutti continuarono e Neffa uscì poi da solista con Aspettando il sole: pareva che grazie al suo immenso talento trasformasse in oro ogni cosa toccasse. Forse il più bravo di sempre.
Gli anni Novanta sono considerati da molti l’età d’oro del rap italiano. Certo è che snocciolando i nomi di quegli anni ci si rende conto dell’importanza che hanno avuto e che molti hanno ancora. Oltre a quelli già citati, basta nominare i romani Danno e Masito dei Colle der Fomento. Pur centellinando gli album ( Anima e Ghiaccio è una perla unica di bellezza) calcano i palchi con una costanza e una carica impressionante, a dimostrazione che il rap non è roba per ragazzini fatta da ragazzini. Stesso discorso vale per Kaos, con quella voce e quelle liriche che ti spaccano il petto. O ancora Bassi Maestro, uno che c’è sempre, o NextOne, Fritz Da Cat, Skizo, Lou X, Inoki, Joe Cassano. E poi Tormento (ex Sottotono) che anche quando i riflettori si sono un po’ abbassati ha sempre continuato a rappare con il suo stile melodico e raffinato, facendo anche un album col compianto Primo (Cor Veleno), altra voce dura, vera, cruda e importante. Stesso discorso per Esa (ex Otierre) che l’hip hop lo vive in maniera seria, profonda e al tempo stesso scanzonata. Gruff, poeta folle e imperscrutabile, inventore di stili e incubatore di talenti. E ancora Ice One, un pioniere che ringiovanisce giorno dopo giorno accanto a Don Diegoh. E I napoletani 13 Bastardi, Cenzou e La Famiglia.
Anche Fabri Fibra nasce artisticamente negli anni Novanta, ma è nel decennio successivo che vive la sua consacrazione. Dopo i primi due album da solista nel 2006 esce Bugiardo , che sdogana il rap a livello mainstream. Il singolo Applausi per Fibra diventa un pezzo che appartiene a una nuova generazione, in qualche misura già un po’ abituata al rap e che lo sposa d’istinto. Era già uscito Mondo Marcio e soprattutto Eminem era entrato di prepotenza nelle cuffie di tutti i ventenni. Da parecchi anni il rap era in down, e a lui va il merito di aver fatto riaccendere i riflettori su un genere, e di riflesso su una cultura, della quale comunque fa parte e nella quale è cresciuto. Non è un’operazione studiata a tavolino, ma un ottimo disco rap, anche difficile, che in qualche modo è il trait d’union tra il vecchio e il nuovo. E così arrivano il successo dei Club Dogo e di Marracash nel 2008, altro talento indiscusso, accompagnato per mano dall’abilità manageriale di Paola Zukar (come Fabri e poi Clementino più avanti).
Al contempo gli artisti più «underground» sfornano dischi di altissimo livello come i già citati Colle der Fomento e Kaos. I media il rap lo subiscono, spesso sembrano incapaci di cavalcarlo. Caratteristica che dovrebbero avere invece nel Dna. E così il rap resta in costante ricerca del riconoscimento di uno status culturale. I testi ora sono meno politicizzati, i contenuti virano verso un’introspezione più marcata, più quotidiana. Si parla di cose che si conoscono direttamente, di un vissuto. Qualsiasi esso sia. Una rivisitazione italiana dello street rap . Si descrivono i vicoli di quartiere, la gente che soffre, le periferie. Fino ad arrivare a un’ostentazione di valori rovesciati rispetto alle origini. È proprio la qualità di scrittura che cresce. Incastri e giochi di parole, rime.
Dal 2006 nelle prime posizioni delle classifiche italiane c’è sempre il rap. Ma ci sono gli effetti collaterali. Per la vulgata, negli anni Novanta il rap era Jovanotti, oggi è Fedez. Qualcosa non torna. Ma la bellezza sta anche e soprattutto nella varietà, e oggi ce n’è un po’ per tutti i gusti, grazie soprattutto a un pubblico giovane, che anche attraverso lo streaming restituisce un panorama imprevisto persino dagli esperti del settore. In cima alle classifiche puoi trovare nomi ormai noti quali Salmo (la cui bravura è invidiata da moltissimi rapper coi quali ho chiacchierato), Gué Pequeno, Ensi, Rocco Hunt, il talento corrosivo di Noyz Narcos, Madman, Emis Killa, Mecna, Willie Peyote e il suo orgoglio sabaudo, Ghemon, Coez, Gemitaiz, Nitro, Luchè, Mezzosangue, Egreen, Clementino e molti altri che oscillano tra underground e mainstream.
- Domenica 6 Agosto, 2017
- LA LETTURA