Il martirio del custode di Palmira.

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Archeologo 82enne decapitato dall’Isis Aveva chiamato la figlia Zenobia come la regina che si ribellò ai romani

Innamorato perso per le rovine di Palmira. Dei loro tramonti, quando i templi romani, i colonnati, le mura del teatro, le statue, le vie pavimentate con ancora impressi i solchi delle carrozze, si tingono di rosso ocra. Ma soprattutto appassionato della storia di questa città crocevia tra Oriente e Occidente, della sfida delle carovane verso il deserto, gli approdi all’Oceano Indiano, il cuore dei traffici e dei commerci antichi. E ancora, affascinato da Zenobia, la fiera regina che 1700 anni orsono seppe ribellarsi alle legioni romane e pagò con la vita il suo coraggio fiero e bellicoso. Tanto affascinato che volle chiamare Zenobia anche sua figlia: un modo intimo e coinvolgente per sottolineare nel lessico familiare il suo trasporto intellettuale.
L’archeologo ottantaduenne siriano Khaled al-Asaad è stato oltraggiato, picchiato, torturato e infine pubblicamente decapitato dai jihadisti dell’Isis martedì scorso. Le foto diffuse in rete dai suoi carnefici sono particolarmente terrificanti. Sono quelle di un anziano dalla fronte larga e i capelli brizzolati legato con una corda minuta attorno alla vita. Poi c’è quella di lui, ancora retto, ma decapitato, la camicia intrisa del suo sangue, le mani bluastre perché legate al semaforo che lo sostiene. E a terra, vicino ai piedi nudi, la testa. Qualcuno ha forse voluto sbeffeggiarlo nel momento estremo rimettendogli gli occhiali. E invece l’effetto rimarca la violenza ignorante, cieca e assurda dei suoi boia. Uccidono l’uomo, non il pensiero, non la sua cultura.
Di al-Asaad (nessun legame di parentela con la famiglia del presidente Bashar) il mondo aveva sentito parlare in maggio, quando le avanguardie dell’Isis avevano raggiunto le rovine antiche oltre 2000 anni di questa che è una delle perle archeologiche più note del Medio Oriente. Si temeva che la furia iconoclasta potesse scatenarsi subito, come già avvenuto a Mosul e nei siti delle grandi civiltà assiro-babilonesi. Ma al-Asaad ci aveva in qualche modo rassicurati. «Gran parte dei manufatti e dei reperti nel museo sono stati da tempo trasferiti a Damasco», aveva detto, confermando le informazioni dei suoi colleghi dalla capitale. Pensavamo che poi se ne fosse andato, avesse abbandonato la zona come tanti altri legati al regime. Membro del partito Baathista dal 1954, per oltre quarant’anni era stato per la comunità degli studiosi internazionali semplicemente «Mister Palmira». Il responsabile del sito autore di oltre 20 volumi sul tema, compresi gli studi sulla «via della seta». Tanto immerso nel suo ruolo che aveva voluto costruire la sua abitazione privata a poche decine di metri dal perimetro esterno della zona delle rovine. Una scelta che, dopo il pensionamento nel 2003, aveva benedetto. «Ora che faceva più fatica a camminare a causa dell’età, poteva sempre ammirare i panorami di Palmira dalle finestre di casa», ricorda oggi il nipote Khalil Hariri alle agenzie stampa.
Possiamo immaginare i suoi ragionamenti. «Sono vecchio. Non sono più attivo. Mi lasceranno stare», pensava. Ma l’Isis non perdona. L’Isis cerca simboli e modi per diffondere il suo messaggio carico di violenza minacciosa. E Al-Asaad era lì, pronto, facile da catturare e ancora più semplice da uccidere in modo plateale.
Così circa un mese fa sono andati a prenderlo. È sparito nelle celle segrete. Sino a martedì, quando i jihadisti lo hanno condotto nella piazza centrale del mercato di Palmira. Di fronte a lui hanno posto un cartellone scritto a mano con cinque motivazioni per la sua esecuzione. È accusato di essere un «apostata» che diffonde il paganesimo. Non direttore di Palmira, ma «direttore degli idoli», scrivono. I suoi contatti internazionali, la collaborazione in passato con gli organismi europei e l’Unesco, le innumerevoli conferenze all’estero, sono bollati come «collusioni con gli infedeli». I suoi viaggi di lavoro con gli archeologi iraniani sono il peccato di tutti i peccati: spia degli sciiti.
Ce n’è abbastanza per trasformare il suo martirio in monito per tutti gli abitanti del Califfato e per tornare a minacciare gli oppositori. A detta di Maamoun Abdul Karim, direttore del dipartimento Antichità a Damasco, gli aguzzini dell’Isis avrebbero anche cercato di interrogare al-Asaad nella speranza di conoscere le località dei siti minori nella regione. Non è un mistero infatti che, se da una parte Isis predica la distruzione metodica delle culture pre islamiche, dall’altra i suoi leader prosperano con il mercato nero dei manufatti trafugati e venduti all’estero. Pare che comunque al-Asaad non sapesse, o non abbia voluto rispondere. Una ragione in più per ucciderlo.

Lorenzo Cremonesi